di Renato Borsoni – Se penso alla velocità supersonica controllata personalmente giorno dopo giorno dalle finestre del mio luogo di lavoro con cui ho visto crescere limmenso supermercato su un riparto delle aree industriali dismesse della città, e leggo invece dellennesima riunione interrogativa tra le realtà che dovrebbero dar vita al Museo dellIndustria e del Lavoro nelle aree confinanti con il Freccia Rossa, non posso non rivedermi accanto la figura di Gino Micheletti. Queste storie, lo so, non si fanno con i se.
Ma se un maledetto bisturi non gli avesse tolto la vita quella mattina di tanti anni fa, sarebbe sicuramente andata in modo diverso: non perché io dubiti dellimpegno senza sosta nè tentennamenti dei suoi collaboratori e della convinta disponibilità delle amministrazioni pubbliche che si sono susseguite nel frattempo, ma perché, una volta individuati con le sue folgoranti intuizioni i luoghi del futuro museo, i primi schemi progettuali, i giusti referenti istituzionali, Gino non avrebbe fatto dormire sonni tranquilli a nessuno fino al giorno dellinaugurazione. Che, lui presente su questa terra – ci metto le mani sul fuoco – sarebbe già abbondantemente avvenuta.
Avendo io seguito da vicino questa vicenda fino alla scomparsa del Micheletti, posso dire che il gran lavoro fatto successivamente per giungere a questo punto merita una adeguata conclusione e, di conseguenza, un progetto gestionale creativo ed efficace: perché, non potendo dubitare della funzionalità architettonica visti i risultati del concorso, il vero grande tema è quello di individuare, accanto e dentro la cornice del museo e dei relativi apparati, una duttilità di funzioni operative e culturali che rendano i luoghi operosi, duttili, stimolanti nel tempo. Una bella prospettiva: anche perché nei grandi paraggi ancora deserti si profilano o si sono già profilati grandi e ancora misteriosi interventi con i quali misurarsi sul piano dellequilibrio socio-culturale della città del futuro. Il grande gnaro di Campo Fiera Gino Micheletti ci spia, sicuramente. Non deludiamolo. Già, non sarà stato molto felice nel vedere le grandi foto darchivio dei lavoratori di quelle storiche industrie costretti ad osservare dalle pareti, mattina e notte, il via vai delliperconsumismo dilagante e distratto, sotto le volte ormai anacronistiche degli antichi luoghi di fatica e di umana solidarietà.
DA IL QUOTIDIANO IL BRESCIA – 21 MAGGIO 2010