Che successo la prima della Traviata

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    Uno spettacolo assolutamente convincente, e una protagonista che è una vera fuoriclasse. Il pubblico presente ieri sera al Grande può ritenersi più che soddisfatto, sia per la messa in scena de "La Traviata", che a Brescia mancava da tanti anni, sia per l’interpretazione del ruolo di protagonista femminile da parte del soprano spagnolo Yolanda Auyaunet che ha cantato in maniera quasi impeccabile. La scenografia è stata dominata dalla plastica, dalle sedie trasparenti sparse un po’ ovunque all’enorme lampadario rosso, al tavolo da gioco-palco verde del terzo atto. Si replica domenica alle 15. 

    La Traviata: note di regia di Andrea Cigni

    Ho sempre pensato di accompagnare ogni presentazione di allestimento con due righe sul senso del lavoro svolto. E così farò anche stavolta.
    Innanzitutto la prima considerazione da fare è quella di voler rispettare una importante tradizione musicale ben radicata e una conoscenza, almeno popolare, di quest’opera borghese e al tempo stesso dover necessariamente raccontare un dramma tanto forte e tanto appassionante come quello di Violetta, e ancor prima quello di Manon Lescaut e Margherita di Dumas, romanzi a cui l’opera si ispira.
    L’allestimento, pur nel solco della tradizione, vuole essere innovativo sotto molti punti di vista e rappresentare un omaggio ad allestimenti che hanno fatto la storia di quest’opera.
    Una scena profondamente elegante e fortemente espressiva e al tempo stesso semplice, essenziale e simbolica; una ricchezza ed una varietà di costumi di raffinata bellezza, non solo nelle forme che evocano una sobria tradizione, ma anche nei tessuti utilizzati (sete, taffetà, organze) e infine una recitazione realmente teatrale, accurata, forte, che punta a coinvolgere lo spettatore dall’inizio e fino al tragico finale.
    Un lavoro generale che vuol portare chi assiste a quest’opera non semplicemente a canticchiare un brindisi, ma a sentire prepotentemente il dramma, i contrasti, la malattia, la gioia, l’amore, l’ebbrezza, le emozioni di tutti i protagonisti e ad appassionarsi profondamente alla vicenda.
    Traviata non è banalmente la storia di una prostituta. In una società dove quasi tutto è governato dal sesso, dal denaro, dall’ebbrezza, solo Violetta riesce a riscattarsi: ha il coraggio di vivere fino in fondo un amore vero, e per amore si sacrifica, dando così una lezione di generosità e altruismo. Il prezzo da pagare, tuttavia, è alto: abbandonata da tutti, muore in una stanza spoglia e desolata, senza niente, senza nemmeno un letto. Cercando di offrire a chi assiste a questa scena un grande colpo di teatro.
    Niente volgarità, niente banali trovate, nessuna provocazione gratuita. Solo il desiderio di raccontare quello che realmente la protagonista vive. Un percorso che va da avventure mercenarie in una vita fatta di promiscuità e superficialità fino alla morte, passando solo per un breve momento attraverso la felicità più infinita.
    L’esito prefissato è una Traviata dai risvolti anche crudi e crudeli, come nell’atto secondo, o in alcuni momenti dell’atto terzo, ma anche poetici e romantici, come nel duetto dell’atto primo o nell’atto secondo (Amami Alfredo!) ed infine è anche struggente e commovente, fino a percepire il grande senso di impotenza davanti al dolore della donna nel finale dell’atto terzo.
    La forza sta nel raccontare, senza melismi o inutili orpelli, questa storia, rispettandone il senso, la musica, l’impressionante forza teatrale, la tradizione, con un linguaggio nuovo, diretto, fresco, accessibile a tutti, in un contesto evidentemente efficace, raffinato, decadente, adatto, comunicativo.

    L’IDEA REGISTICA ED IL LAVORO SUGLI INTERPRETI
    Traviata è un’opera realmente teatrale. Non è possibile pensare, oggi, di rappresentare questa vicenda, senza tenere conto della necessità forte di rendere il senso drammatico e drammaturgico di questo testo e di questa musica.
    Il lavoro di regia parte da qui. Dalla necessità di avvicinare il più possibile lo spettatore ai personaggi. Compito del nostro lavoro è questo, far sì che le persone che assistono alla storia di  Violetta, di Alfredo e degli altri protagonisti della vicenda possano vivere le loro passioni, le loro sofferenze. Ci si affeziona ad un personaggio tanto quanto questo è più prossimo a noi, alla nostra esperienza e allora alla fine ci leghiamo a lui, fino in fondo; e viene facile poterlo fare con quest’opera, dove la crudezza e la forza di questa trama e la sua profonda realtà si offrono per un altrettanto importante lavoro di regia.
    In effetti quando mi è stato chiesto di descrivere Traviata in una sola parola io ho trovato quella che ancora oggi mi risuona in testa più forte: reale. E’ reale il suo amore, è reale il suo modo di vivere (giusto o sbagliato che sia), è reale la sua passione, è reale la sua gioia, è reale la sua sofferenza, è reale la sua malattia, è reale la sua morte. Non c’è niente di finto, di fantastico, di favolistico. E’ tutto incredibilmente vero e il pubblico lo crede e vuole crederlo e questa è la forza dell’opera di Verdi, la sua forza è la realtà.
    Violetta vive un ambiente sfarzoso, elegante, ricco, decadente, che la riflette, insieme a tutti gli altri, senza rendere nitida la sua immagine, perché lei è altro da quello che vive quotidianamente. E’ vittima di questa continua giostra di incontri, di feste, di brindisi, di ‘rituali’, di falsità, di crudeltà. Una giostra che l’ha trascinata addirittura nella malattia e che la porterà alla morte. Una giostra priva di affetti sinceri, che si ferma e si ‘rompe’ solo nel momento in cui vive la cosa più importante, che è racchiusa nel concetto di serenità, nella sua ‘casa di campagna’, tra ‘quei fiori’ con la persona che ama davvero.
    E così l’opera si apre con ancora la rappresentazione di questa prima festa, in cui l’ospite ‘nuovo’ è proprio Alfredo, forse non del tutto consapevole di cosa sia realmente il mondo in cui sta entrando e che si manifesta sempre con rituali precisi, dove ogni partecipante è chiamato a svolgere il proprio compito dopo essere stato ‘iniziato’. Il brindisi è la sua prova, la prova che riesce perfettamente ad eseguire davanti a tutti. Violetta lo dice: Pronto è il tutto… La prova è il rito, fatto senza sbagliare, addirittura improvvisando con la sua amata ciò che gli viene richiesto di cantare e per il quale è incitato ed incalzato dagli ‘amici’, che poi amici non sono e non saranno mai, nonostante più di una volta i protagonisti li definiscano tali. Sono solo figure affamate di eccitazione, di sballo, di divertimento, di sesso, di emozioni forti, ma che non conoscono altruismo o affetti sinceri. Nessuno aiuta Violetta quando si sente male, nessuno la sostiene quando Alfredo la accusa violentemente di essere solo una prostituta. Nessuno degli amici è con lei nel momento della morte. Vivono al momento le loro pulsioni. Anche con un certo piacere voyeuristico, nascosti dalle loro maschere belle e inquietanti. Come nella scena del brindisi o nell’atto secondo nella scena dei ‘toreri e delle zingarelle’, una scena di morte che non fa altro che aumentare il loro stato di eccitazione.
    Questo mondo, così raffinato, così elegante, così forzatamente chic, così ricco, così bello, non può esistere. La sala del primo atto ricorda saloni di feste sfarzose, con una marea di sedie in stile che non hanno anima ma che servono agli invitati ‘spettatori’ e ‘protagonisti’ della festa e dell’iniziazione di Alfredo. Le pareti sono un chiaro omaggio alla riflessione, allo specchio, ma utilizzato qui non nel suo senso puro, ma sbagliato, una riflessione mai nitida, opaca come le anime di chi vi si riflette.
    Il salone della casa si apre, si spacca, respira, nel secondo atto,  con un movimento che inizia al termine del primo atto e diventa cielo e diventa giardino, della casa di campagna, diventa natura con i suoi elementi, diventa serenità e lascia ai lati gli elementi della festa sbagliata, le sedie, ormai rovesciate e dunque private della loro funzione iniziale. La sala della casa ritorna dopo con una prospettiva diversa, con un ingresso diverso quando sul finale della prima scena dell’atto secondo si ricompone ma ospitando un palcoscenico nuovo, di un nuovo rito a cui assistere, quello della morte rappresentato, molto promiscuamente da zingarelle che diventano tori (con maschere inquietanti ma bellissime) e da matadores che li uccidono senza pietà stimolando gli appetiti degli invitati, nascosti dietro le loro maschere tragiche, comiche, terribilmente bianche. Ombre che si confondono per poter spiare e godere meglio di questo spettacolo e dello spettacolo dell’umiliazione della loro amica Violetta, trattata da prostituta davanti a tutti: questa donna, pagata io l’ho!.
    Poi una pausa. Tutto torna quasi come all’inizio. Solo che il salone è ora più angusto, le bellissime sedie in stile sono rimaste poche, coperte, in attesa di essere portate via definitivamente, il meraviglioso lampadario è a terra, spento. Non c’è neanche un letto per Violetta, stanno togliendole tutto e di fatto è ciò accadrà realmente con l’intervento dell’Ufficiale che imporrà di sequestrare tutto. Con lei solo Annina e la sua compagna, la morte. E’ forse una delle scene più forti della storia dell’opera di tutti i tempi per quanto mi riguarda, in cui l’impotenza e la miseria umana, si mischiano alla grande dignità e all’altruismo di Violetta. Non ha più niente, le verrà negato tutto, in un continuo smembramento del suo mondo, ma la sua integrità sta proprio nella forza dell’amore che l’accompagna fino all’ultimo respiro, è quella la sua ricchezza e farà apparire gli altri, coloro che restano vivi, piccoli e inetti. Il finale è il senso del teatro. E’ il senso della vita stessa e colpisce e coinvolge lo spettatore per la sua grande verità.
    Infine il concetto della morte cui accennavo. Non è solo raccontata o filtrata attraverso la sofferenza. E’ dichiarata. All’inizio, nel preludio e poi alla fine, nel terzo atto. La morte le lascerà il suo segno, la sua malattia addosso, rappresentata da un fiore bianco (citazione della crudeltà e della realtà pirandelliana per molti aspetti) che per assurdo sarà anche il simbolo del suo amore Prendete questo fiore (lei offre amore sì, ma offre anche se stessa, una persona che sta morendo) e sarà il simbolo del luogo in cui lei si sente serena, il giardino della casa di campagna: Amami Alfredo! … Io sarò là tra quei fior….
    E’ questa la Traviata pensata per questo nuovo allestimento, che vorremmo nuovo non solo nel senso più elementare del termine, ma soprattutto nell’idea che tende ad esprimere in palcoscenico in cui una forte recitazione si intreccia ad una cura altrettanto importante di scene e costumi.

    LA MESSINSCENA
    Una stanza in acciaio inossidabile che nelle forme ricorda ambienti fastosi e per certi aspetti inquietanti, perché sono il luogo di certa decadenza di costumi e di modi di vivere. La volontà di voler riflettere il mondo che ospita e che si apre quando questo mondo viene negato e tutto si trasforma in un ‘positivo e simbolico giardino’. Per poi richiudersi quando prepotentemente ritorna il mondo da cui Violetta proviene. Un solo elemento caratterizzante: la sedia, che però con la sua trasparenza non invade lo spazio, ma serve solo allo svolgimento drammatico dell’azione fin dall’inizio con la frase Miei cari, sedete! E che fungerà da strumento per osservare, per giocare, per assistere, per morire. Una pedana realizzata in plexiglass verde che rappresenta il luogo del gioco e della corrida, della vita e della morte ostentata e spiata, come nel finale atto II. Alla fine, la possibilità offerta dal movimento delle angolazioni dei diversi ambienti si tradurrà in una stanza angusta e ‘sofferente’ e terribilmente vuota, come vuota è ormai la vita della nostra protagonista.

    I COSTUMI
    I costumi seguiranno il senso teatrale di questa opera, rispettandone la tradizione musicale e drammatica. Assecondando la regia nel suo percorso narrativo. Non solo, semplicemente, costumi di raffinata fattura, ma costumi che necessariamente comunicano allo spettatore ciò che i protagonisti sono e ciò che portano in scena. Materiali scelti per rappresentare la grande eleganza degli interpreti, ma anche per far trasudare dagli stessi l’aspetto decadente della loro condotta di vita, delle loro passioni, del loro dolore, della loro sofferenza. Seta, raso, tessuti satin e lucidi dei momenti di ‘festa esasperata’ si alternano all’opacità di alcuni momenti in cui l’ambiguità la fa da padrona (atto II). I costumi seguiranno il concetto di verità a cui tutto il lavoro si ispira.
    Andrea Cigni

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