Green Hill, l’azienda attacca: noi vittime di una campagna animalista

E’ atteso per il 3 ottobre 2017 il verdetto della Suprema Corte di Cassazione su Green Hill, l’allevamento di cani di razza beagle di proprietà della multinazionale americana Marshall

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Liberazione di uno dei cuccioli di Green Hill
La liberazione di uno dei cuccioli di Green Hill

E’ atteso per il  3 ottobre 2017 il verdetto della Suprema Corte di Cassazione su Green Hill, l’allevamento di cani di razza beagle di proprietà della multinazionale americana Marshall specializzata nella fornitura di prodotti e servizi per la ricerca ad aziende farmaceutiche e università europee e di tutto il mondo.

Green Hill, – in una nota – “conferma l’estraneità alle accuse che, si ricorda, non fanno riferimento a maltrattamenti comunemente intesi come hanno volutamente fatto intendere alcune campagne animaliste, ma riguardano comportamenti e azioni messe in essere non conformi alle caratteristiche etologiche dei cani di razza beagle”.

I vertici di Green Hill – passando al contrattacco – sottolineano inoltre che “il processo è stato fin dalle fasi iniziali fortemente influenzato da una campagna animalista ingiustamente accanita che in realtà intende vedere condannata l’azienda non per i metodi di allevamento, ma piuttosto per le finalità di quest’ultimo e non ne considera la necessità per la ricerca medico-scientifica indispensabile per il benessere e la cura non solo della specie umana, ma anche degli stessi animali”. Inoltre Green Hill lamenta il fatto che “nei precedenti gradi di giudizio non sono stati presi in considerazione la gran quantità di documenti e materiali prodotti dalla difesa che certificano senza dubbio alcuno il rispetto del benessere animale, l’assenza di maltrattamenti e l’eccellenza dell’allevamento, come avviene in tutti i siti di Marshall nel mondo”.

Aldilà della decisione della Cassazione, Marshall precisa quindi di aver “dovuto interrompere gli investimenti in Italia e mettere in vendita l’allevamento di Green Hill sospendendone l’attività a causa del recepimento restrittivo da parte dell’Italia della direttiva europea sulla sperimentazione animale. La sofferta decisione dell’azienda americana di vendere il sito italiano, infatti, è dovuta alle limitazioni che, seguendo la spinta animalista, sono state introdotte con il Decreto Legislativo 26/2014 all’utilizzo degli animali per scopi scientifici rispetto a quanto viene disposto dalla Direttiva 2010/63/EU, al punto che la Comunità europea ha avviato una procedura di infrazione contro il nostro Paese. Questa Direttiva europea, frutto di una lunga riflessione e confronto con le principali organizzazioni coinvolte nel campo della ricerca, incluse le associazioni animaliste europee, con lo scopo di dare a tutti i Paesi uguali opportunità di ricerca e soprattutto di armonizzare l’allevamento e l’utilizzo degli animali garantendone il benessere, esclude espressamente che gli Stati membri adottino misure più restrittive di quanto disposto a meno che queste non fossero già in vigore prima del Novembre 2010, come invece ha fatto il nostro Paese con i divieti su allevamento di cani, gatti e primati, test su sostanze d’abuso e xenotrapianti”.

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