Al via la mostra: «Vivere o scrivere, Varlam Salamov»

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La mostra «Vivere o scrivere. Varlam Salamov» è dedicata alla figura di uno dei massimi scrittori russi del Novecento, Varlam Salamov, i cui testi hanno svolto un ruolo fondamentale nel far conoscere al pubblico la realtà dell’inferno concentrazionario sovietico. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, Salamov si dedica per vent’anni alla stesura dei Racconti di Kolyma, la sua opera più celebre, summa delle esperienze dello scrittore all’interno dei campi. Al pari di Aleksandr Solženicyn, ha descritto l’orrore del sistema staliniano, fornendo al lettore un’alta testimonianza sul percorso spirituale dell’uomo russo nella storia contemporanea. Ne parlano, in occasione dell’inaugurazione della mostra, Sergio Rapetti, traduttore dei Racconti di Kolyma e studioso di Salamov, e Francesca Gori, presidente dell’associazione Memorial Italia.

Antonio Palazzo leggerà dei brani da I libri della mia vita di Varlam Salamov.
La mostra è curata dall’Associazione Memorial Italia, in collaborazione con la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura e l’Università Cattolica di Brescia.

Varlam Tichonovic Salamov muore il 17 gennaio del 1982 in un ospedale psichiatrico di Mosca in cui era stato rinchiuso alcuni giorni prima. Era stato prelevato dall’ospizio dove aveva trovato rifugio, ormai sordo e cieco, definitivamente sconfitto dalle durezze della vita, dallo stalinismo e dal sistema concentrazionario sovietico. In realtà la sua vittoria, cui purtroppo non avrebbe potuto assistere, il suo riscatto postumo, si andava realizzando. I suoi racconti cominciavano a circolare anche in occidente, cominciavano a trovare editori e lettori: l’apprezzamento per la sua opera stava diffondendosi rapidamente.

Per comprendere la drammatica storia umana e letteraria di Salamov, bisogna partire dall’estremo confine orientale della Siberia dove scorre il fiume di Kolyma, un fiume di duemila chilometri nella tundra desolata. Lì sorgeva "l’ultimo cerchio dell’inferno carcerario" staliniano (come ebbe a scrivere Salamov stesso), lì egli visse quasi vent’anni di internamento, lì, tragicamente, trovò ispirazione per il suo capolavoro.

Nel gulag siberiano di Kolyma le condizioni di vita erano terribili, umanamente impossibili: temperature che raggiungono e superano i 50° sotto zero, baracche di legno mal riscaldate, una cronica mancanza di vestiti adeguati, orari di lavoro massacranti, penuria di cibo.
L’Auschwitz di ghiaccio, come veniva chiamato quel campo estremo con le sue decine di miniere di oro, in cui erano costretti a lavorare i detenuti, aveva ricevuto Salamov nel 1937, arrestato per "attività antirivoluzionaria trotzkista". A Kolyma, Salamov è rimasto fino al 1953, l’anno della morte di Stalin, ma, rilasciato, non aveva comunque potuto tornare a Mosca: aveva dovuto rimanere ancora tre anni in Siberia come prigioniero liberato.

Gli anni di Kolyma non erano la prima esperienza di internamento. Già nel 1929, poco più che ventenne, era stato scoperto in una stamperia clandestina dove con un gruppo di altri universitari preparava la pubblicazione del cosiddetto "Testamento di Lenin", la controversa lettera antistaliniana che il vecchio leader della rivoluzione aveva scritto poco prima di morire. Arrestato, venne condannato a tre anni di "campo di correzione" e destinato al campo di Vigera negli Urali del Nord.
I pesanti periodi di detenzione hanno quindi posto drammaticamente fine alle sue illusioni giovanili, a quegli anni che, fino al 1929, erano stati vissuti con una aspettativa ben diversa, come ricorda lui stesso in La quarta Vologda (Milano, Adelphi 2001).

Figlio di un prete ortodosso, Salamov era nato il 18 giugno del 1907, nella cittadina di Vologda, duecento chilometri a nord di Mosca. Qui aveva vissuto e studiato fino al 1923, prima di recarsi nella capitale, dove, dopo tre anni di lavoro come conciatore, aveva iniziato l’università, nella facoltà di diritto.
Non arriverà a finire gli studi diventando una delle vittime emblematiche dello stalinismo, del periodo più cupo della storia sovietica, dagli anni ’30 fino agli anni ’50. Solo dopo il primo disgelo di Krusciov, riuscirà a tornare a Mosca e a dedicarsi alla scrittura con una certa continuità. Allora potrà riprendere ad avere contatti con gli scrittori, a pubblicare qualche poesia e qualche racconto, per lo più su riviste clandestine.

Il legame forse più fecondo di questo periodo fu quello con Boris Pasternak: subito dopo la liberazione dal gulag, nel 1953,aveva iniziato a scrivere al grande scrittore che in quel periodo stava terminando il Dottor Zivago, mentre Salamov incominciava in quegli anni la stesura dei primi Racconti di Kolyma. Situazioni diverse dunque ma nel carteggioche andava sviluppandosi vi sono grande stima reciproca, scambi di poesie, e riflessioni sul sistema concentrazionario. I due scrittori si confrontano "sulle cose più importanti", sulla letteratura e sull’ispirazione poetica, sul senso dell’attività artistica e sul ruolo dell’intellettuale nellasocietà (Varlam Salamov — Boris Pasternak, Parole salvate dalle fiamme: lettere e ricordi, Milano, Archinto 1993-2009). In quel periodo, su richiesta di Pasternak, Salamov ricostruirà una sorta di storia dell’universo carcerario, pubblicato in Russia alla fine degli anni ’80 e tradotto in Francia con il titolo di Essaissurle monde du crime (Paris, Gallimard 1993).

Sono anni relativamente sereni per Salamov, segnati è vero dalla povertà e da molte difficoltà ma illuminati dalla possibilità discrivere. Tuttavia, come abbiamo detto, solo poco di quello che scrive arriverà alla pubblicazione e al pubblico; il suo è quindi uno scrivere, in un certo senso, "a futura memoria", uno scrivere perché forse un giorno qualcuno leggerà. E così è stato, per nostra fortuna. È in questi anni e in questo quadro che Salamov scrive il breve testo I libri della mia vita.

"Mi dispiace di non aver mai avuto una biblioteca mia." Così, tristemente e quasi sottovoce, Salamov chiude questo suo breve testo in cui il gulag quasi scompare, in cui l’angoscia dell’autore trova conforto nella lettura e, attraverso la lettura, egli trova la forza per resistere alle sofferenze e alle persecuzioni. La semplicità espressiva, l’immediatezza della narrazione nasconde la Kolyma, il campo di concentramento. Restano i libri e resta il desiderio di lettura. Sembra quasi che in alcuni momenti il libro diventi più importante del cibo, la cui mancanza era fonte di tanta sofferenza e di morte, nel gulag.

Salamov sembra poter rinunciare a tutto ma non al libro. E se anche per un certo periodo pensa di aver perso il piacere della lettura, addirittura di aver disimparato a leggere, non appena quasi casualmente ritrova un libro, ecco che ritorna la voglia e la capacità di godere della parola. Allora legge, compulsivamente, di notte, alla luce stentata delle candele, senza più dormire. Tante, troppe sono le letture da recuperare!

A tratti emergono dei riferimenti autobiografici, appaiono situazioni che ci fanno intravedere dei momenti del suo drammatico percorso. Eppure sembra quasi che siano accenni privi di rilevanza, ricordati solo per necessità di chiarezza, incomparabilmente minuti rispetto a ciò che in quel momento lo riporta al ricordo del libro, a ‘quel’ libro.
Per Salamovci sono libri e libri, ci sono romanzi che hanno valore letterario e ci sono romanzi di consumo o di convenienza politica. Egli ha ben chiara la differenza tra la vera letteratura e le opere che le ‘odiate’ bibliotecarie distribuiscono al pubblico che non sa riconoscere, che non capisce la differenza, che si accontenta dell’autore del momento o dell’autore imposto dal partito. Per questo, quando trova un bibliotecario che ha saputo scegliere (e per questo ha rischiato di fronte alle autorità), Salamov quasi si emoziona nel raccontare come, nel grigiore che lo circonda, ci siano queste eccezioni.

Secondo Salamov la letteratura non può essere opera di finzione, narrativa di fantasia, fiction. Questo genere di narrativa è ormai superato, privo di significato in un secolo di barbarie come il Novecento. Egli si è definito come cronista di nuovo tipo, un testimone di una realtà che cerca di trascrivere nell’immediatezza, un osservatore che non può prescindere dalla realtà presente, che deve farsi carico di quanto accade. Proprio per questo il libro di Salamov coinvolge il lettore: anche se il gulag sembra scomparire, in realtà riemerge costantemente con tutta la sua forza, con tutta la sua carica di inumana violenza, tanto da rendere più drammatica la privazione dei libri (o la disponibilità nelle biblioteche siberiane di cattiva letteratura) che non la mancanza di cibo.

A quel punto apparve in tutta la sua grandezza la rilevanza di questo scrittore, non solo per la grande forza del suo progetto di scrittura ma anche e soprattutto per il grande valore del suo stile letterario. Salamov oggi è sicuramente uno dei grandi scrittori della letteratura russa del Novecento e questo posto gli compete non per il suo tragico destino, ma proprio per il valore della sua opera. Ci sono autori il cui nome resta legato a un solo grande libro. Per Salamov, si tratta, è vero, soprattutto di un libro ma un libro dalle mille sfaccettature, dalle mille e complesse trame, un quadro molteplice che si completa nell’insieme, come un mosaico meraviglioso fatto di tanti piccoli frammenti.

22 ottobre-7 novembre 2014.
Orario della mostra: da lunedì a venerdì ore 9/20; sabato ore 9/13.
Brescia, Cattolica di Brescia, Corridoio Montini, via Trieste, 17
Inaugurazione della mostra:
Mercoledì 22 ottobre, ore 18

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