Economia, le aziende aspettano la “ripresina”

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Il 2015 – per l’economia italiana e bresciana – è un’occasione da non perdere. Dopo anni di crisi nera e curve di mercato in costante discesa, infatti, negli ultimi mesi sono arrivati alcuni segnali positivi che potrebbero permettere al Paese e all’Europa intera di invertire la tendenza. Ma per farlo il Paese e la Leonessa non possono mancare il passaggio più importante: governo e imprenditori devono infatti cogliere – e cavalcare – al più presto le occasioni, adattandosi alle nuove esigenze del mercato, per sfruttare l’onda della ripresina. E non affogare nel grande mare della crisi.

I numeri dicono che le nostre speranze sono legate soprattutto all’export e alla capacità di stare sul mercato (mondiale). Secondo i dati di Banca Italia, infatti, nel terzo trimestre 2014 le piccole e medie imprese italiane hanno visto crescere le esportazioni del 3,3 per cento, due punti in più delle grandi (comunque in positivo). Un segnale che evidenzia anche come – per la prima volta dopo anni – le speranze di ripresa passano soprattutto dalle aziende piccole e medie, cioè da quelle che rappresentano la gran parte del corpo del tessuto industriale italiano. A fine anno la crescita è stata meno significativa del previsto (più 2 per cento), ma la bilancia commerciale italiana ha registrato comunque un surplus di 42,897 miliardi: il risultato migliore almeno dal 1993.

E l’export – da sempre uno dei traini dell’economia bresciana – sarà certamente sostenuto anche nei prossimi mesi dal calo della quotazione dell’Euro rispetto al Dollaro. L’Euro raggiunse vette di 1,60 (nel luglio 2008) contro la moneta americana, ed a pagare le spese furono soprattutto le esportazioni italiane (a partire dalla moda e dall’agroalimentare). Ma negli ultimi 12 mesi si è passati da 1,3 dollari per comprare un euro a 1,1 e c’è anche chi parla di possibile parità. Uno scenario che favorisce ovviamente le esportazioni europee (un dollaro più forte rende più conveniente per gli americani comprare prodotti stranieri). Allo stesso modo favorisce l’export la decisione della Svizzera, presa a gennaio, di abbandonare la politica monetaria di parità con l’euro. Il risultato è  che il Franco è cresciuto nettamente: il 12 ottobre 2007 per comprare un Euro ci volevano 1,68 Franchi, il 23 gennaio 2013 meno di uno (0,98).

Contestualmente arrivano novità positive sul fronte dell’energia, in particolare del petrolio. Nell’ultimo anno il prezzo del barile è letteralmente crollato. Una novità certamente positiva in un territorio, quello italiano, in cui il 91 per cento delle merci marcia ancora su gomma. Purtroppo al crollo del barile (lo scorso luglio, al Brent, un barile costava 110 dollari, a gennaio si è scesi a 60) non è seguito un corrispondente calo del costo della benzina alla pompa e la colpa va cercata nell’aumento dell’Iva e delle tante accise (dal Vajont ai terremoti, dal contratto degli autoferrotramvieri alla guerra in Libano) che ancora gravano sulla benzina. Ma per le aziende, in particolare per il manifatturiero, il vantaggio è  comunque grande, perché anche il prezzo del gas  – che incide più della benzina nei costi di produzione – è legato a quello del barile di greggio.

Infine – ma solo in ordine di elencazione – tra le novità positive c’è il grande “bombardamento” di euro sulle economie della Ue che prende il nome di “quantitative easing”. La Banca centrale europea, infatti, ha varato una misura straordinaria da 1.140 miliardi di euro che permetterà alle 19 Banche nazionali dell’Eurozona, in coordinamento con lo staff di Draghi, di rastrellare 60 miliardi di euro di titoli, ogni mese almeno fino al settembre 2016, sui mercati. Si tratterà in primo luogo (circa 45 miliardi, dicono gli analisti) di titoli di Stato: una circostanza di cui l’Italia ha già beneficiato con il crollo dei rendimenti dei Btp e lo spread, la differenza di rendimento rispetto ai Bund tedeschi, che ha infranto al ribasso la quota psicologica di 100 punti base. Ma resta da capire quanta parte di questo denaro, tramite le banche, arriverà alle imprese del territorio. La Bce ha introdotto dei vincoli su questo fronte per gli istituti di credito. E la prima risposta sembra positiva.

Il tutto mentre in Italia arriva il Jobs Act, che – secondo tutti gli analisti –  porterà effetti dubbio positivi su economia ed occupazione. Con la promessa, ribadita a gennaio dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, di 200 mila posti di lavoro subito con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, che potrebbero salire fino a 800mila entro la fine dell’anno.

Ma tutte queste sono occasioni ancora tutte da cogliere. Perché è vero che le ultime previsioni dell’Istat parlano di crescita già nel primo trimestre del 2015 (“la variazione congiunturale reale del Pil prevista per il primo trimestre è pari a +0,1%, con un intervallo di confidenza compreso tra -0,1% e +0,3%”). Anche il “clima di fiducia delle imprese italiane è ulteriormente aumentato a febbraio (+7 punti rispetto a dicembre), grazie a rialzi significativi nei servizi di mercato, e ad aumenti più contenuti nel settore manifatturiero e nel commercio al dettaglio. Ma è altrettanto vero che il risultato positivo dell’inizio del 2015 “è la sintesi del contributo ancora negativo della domanda interna (al lordo delle scorte) e dell’apporto favorevole della domanda estera netta”. Insomma: il mercato interno non è ancora ripartito. E per ora la ripresa poggia tutta sull’export, ma non basta.

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