Polemiche sul Bigio, Cammarata è dadaista… | di Maurizio Bernardelli Curuz

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Maurizio Bernardelli Curuz

di Maurizio Bernardelli Curuz* – Cammarata dadaista, camerata revanscista. Divertentissimo il mondo fantasmagorico del Bigio. Cammarata ha fatto benissimo – è vivo, pensa – a usare quella specie di David – Bigio – ribaltato, ma anche Lupo, leghista, proponendo fotograficamente l’adunanza dei fasci d’altri tempi, in piazza Vittoria, fa muovere il cervello. E uno, anche se fa il presidente di un consiglio comunale, mica è una mummia.

Esiste l’imparzialità assoluta? No, diciamocelo, in quatttro chiacchiere al bar che, per quanto possano essere corretti, i presidenti delle assemblee non giungono da alfacentauri. Abbiamo perdonato a Fico il pugno comunista davanti alle Forze armate? Il comunismo condannato a livello europeo? Ma Fico piace ai Pd, anche se quel gesto che fece è molto volgare.

Cammarata è ben più raffinato. Riprodurre un’immagine artisticamente rielaborata di Bigio a testa in giù, con il ricordo di bigi armati e piazze milanesi, ma anche di Botticelli (l’impiccato per i piedi, in contumacia), in uno stile a metà tra il pop e metà tra il graffitismo urbano, è stimolante. Cammarata non impicca un uomo ma un simbolo. E dice: tutti i bigi a testa in giù. Vabbe’, ma è storicizzazione di uno slogan. C’è un filtro nel suo messaggio, il recupero di materiale popolare. In bigio sta picio, cioè il cazzetto formato surgelato – perchè con tutto il freddo preso in piazza il penino retrattile dell’eroe rientrava tra le pieghe – che dovette dare il nome alla statua fascista. Pop. Come assolutamente da leggere con attenzione è il parallelismo o il contrapposto instaurato dal leghista Lupo tra la continuità del partito del sì, in piazza Vittoria, tra gruppi del consenso di ieri e di oggi: il sì del popolo oceanico ai tempi di quella che era rimasta un’Italietta ossequiosa e politicamente corretta e il sì del popolo delle sardine. Due popoli del sì, nella stessa piazza, che non si opponevano e non si oppongono alla Loggia o al governo, ma ne sostengono le sorti.

Quindi sciogliete Cammarata e Lupo, ve ne prego, dall’obbligo del minimo imbarazzo. Ringraziateli, piuttosto. Questa gente è indispensabile per non finire nelle giaculatorie del politicamente corretto, in una città che rimane profondamente asburgica e dovi devi dichiarare che nel fumetto vaporoso dell’alito, d’inverno, non sta nascosta alcuna parola traversa. Attorno all’asburgicità di Brescia – Spesso, a questo proposito – l’asburgicità di Brescia – punzecchio il mio amico Emilio del Bono (che tale è, anche se è un avversario ed è quello che mi ha “fatto fuori” da Brescia musei) su questa città ordinatissima e per me soffocante; con il maresciallo Haynau che gode sado-maso e collabora in castello perchè non una parola o un’aiuola siano fuori posto. Non vengo più a Brescia perchè il suo ordine e l’obbligo di dire orazioni silenziose e le sue feste pettinate e i suoi fiori così belli da apparire mummificati e sintetici, mi disturbano. E se sorrido con Emilio del Bono o con Cammarata, ciò non significa che sono un liberale transfuga. Non starò mai con Renzi, con il Pd. Il mio liberalismo radicalizzante è saldamente a destra.

Sulla provocazione del Bigio – Credo d’averlo posto io, il problema architettonico del Bigio, in virtù dell’amore per i pensieri un po’ spettinati e per gli studi iconologici e iconografici. In un articolo per il Giornale di Brescia, un oceano di tempo fa, scrissi che Piazza Vittoria, così, era monca, disassata e prepotente. Prepotente per la mancanza di un elemento umano e architettonico che ne mediasse l’apocalittico carattere sovrumano. L’elemento di mediazione – pur nietzschiana – era la scultura di Dazzi pensata apposta come meccanismo e chiave. Togliere il Bigio aveva significato spezzare la chiave di un marchingegno enorme, che così restava fermo. Il Bigio era il titano umanizzante che andava eroicamente contro il destino, all’interno di quello spazio soverchio e immoto. Bigio era un po’ il david fascista contro i regni di assurbanipal e, al tempo stesso, introduceva una scala di altezze variabili, assolutamente necessaria per non percepire la piazza stessa come un luogo disabitato dall’umano. (Piazza Vittoria mi mette sempre tanta tristezza, comunque).Per me era una questione soprattutto artistica, ma non sottovalutai, concluse le mie considerazioni tecniche, la possibilità che quell’analisi potesse diventare una provocazione, poi, rispetto alla città. Provocazione che quel gattone rapidissimo di Corsini-imperatore colse immediatamente, aprendo un dibattito. Eravamo – io non ritaglio articoli e non ho diari – ai tempi dell’amministrazione Corsini, quindi tanti tanti anni fa.

Se Cammarata è dadaista, il camerata non sia revanscista. Anche perchè i camerati non ci sono più. Il Bigio non deve dividere. Il Bigio va storicizzato, ma non può diventare simbolo, ancora di uno strappo. Torno al veccho articolo. Dopo tutta una serie di considerazioni strutturali e iconografiche, in quell’articolo provai un termometro. Quanto Brescia e il Paese erano cambiati? Quanto questa città era maturata rispetto all’adolescenza orribile degli anni Quaranta? C’erano due Italie, ancora? Forse non sono due Italie, ma restano due linguaggi, in permanenza. Segno che le ferite della guerra civile operano nel Dna dei discendenti. Sciogliete però Cammarata e Lupo. Un pensiero non è mai gradevole o sgradevole. E’ un pensiero.

* Critico d’arte

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