Stupisce che a studiosi di sicura vaglia sfugga totalmente l’evoluzione, o meglio l’involuzione, del capitalismo italiano dell’ultimo trentennio. Che è, per contro, il cuore di tenebra della lunga crisi italiana. Di tenebra, perché completamente occultato nel dibattito pubblico.
Il fatto, di prima grandezza, è che il capitalismo italiano si è ritratto dalla grande dimensione. Si è adattato ad una taglia, sia pure eccellente, media e piccola. E a Brescia lo tocchiamo con mano.
E si sono aperte praterie al capitale straniero, che è difficile prendere per le corna. Quando fiuta l’interesse, prende e se ne va. E a Brescia abbiamo visto anche questo. E dove i capitani coraggiosi si sono cimentati hanno fallito: Alitalia e Autostrade. E ci ritroviamo FCA non più italiana, la siderurgia che rischia di chiudere i battenti, la chimica e la farmaceutica fanalini di coda.
Le ragioni di questa parabola: un deficit di cultura imprenditoriale, una propensione agli investimenti a breve e finanziari, l’assenza dello stato. Quest’ultimo, preso da amnesia, si è scordato delle lezioni della storia. Tutti i grandi balzi dell’economia (dalle ferrovie alle nanotecnologie) sono stati trainati dagli investimenti pubblici. Senza di questi Steve Jobs, per dire, sarebbe ancora nel suo garage. Ecco perché è stucchevole tutta questa polemica sullo statalismo di ritorno che avrebbe ammaliato il governo.
Il declino dell’Italia, paese importatore di materie prime e esportatore di manufatti, può essere fermato dal ritorno della grande dimensione e dalle filiere corte. Che non possono sbocciare, come per incanto, dal mercato, liberato da lacci e lacciuoli, veri e presunti. È lo stato che, con investimenti pubblici e la creazione di una agenzia per la politica industriale, può rendere appetibili investimenti privati pazienti. I capitali ci sono: il patrimonio dei 4 milioni di imprese ammonta a 10 trilioni di euro.
Ma i cultori del pensiero neoliberista continuano a pensare che gli investimenti pubblici scoraggino quelli privati, smentiti dai fatti che certificano il crollo sia degli uni che degli altri.
In questo senso le ricette di Confindustria sono quanto di più obsoleto si possa immaginare.
Il contributo più grande di Bonomi alla ripresa sarebbe la costruzione di una cordata di investitori per l’Ilva e Autostrade, per smentire venti anni e passa di storia. Non lo farà. Preferisce la stanca riproposizione della via bassa allo sviluppo: bassi salari e gestione unilaterale della manodopera. A Brescia, detto per inciso, ci sono tutte le condizioni perché questa prospettiva non prevalga. E non solo per la robustezza del sindacato. Robustezza, detto ancora per inciso, che ha fortemente contribuito a garantire la sicurezza dei lavoratori, in questa pandemia.
Il Recovery Fund deve avere l’ambizione di portarsi a questa altezza: la riforma del capitalismo italiano. Tuttavia, ad horas, il governo, affinché il piano possa avere quella caratura, deve assumere due decisioni, fuori, con tutta evidenza, dalla portata del mercato. Salvare la siderurgia, entrando con capitale pubblico nell’ex Ilva. Riscrivere la concessione di Autostrade e, con capitale statale, modificare la governance della concessionaria.
L’arcivescovo di Canterbury scriveva che il mercato è un cattivo padrone, ma un servo meraviglioso. In questi lunghi 30 anni non è stato un servo meraviglioso, anche perché è mancato uno stato regolatore, ed è stato un cattivo padrone, altrimenti la produttività non sarebbe tra le più basse d’Europa. Con uno stato innovatore, e anche imprenditore, si può aprire una nuova pagina nella storia del capitalismo italiano.
* segretario provinciale di Articolo UNO di Brescia