L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 13-14

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XIII

La signora maestra Lucia aveva ottenuto dal signor
Direttore della scuola di poter acquistare qualche attrezzo
per la lavorazione della terra da dare ai ragazzi perché
iniziassero, dopo averlo pulito dai sassi, dai calcinacci
e dai pezzi di legno, a smuovere la terra in attesa di una
prossima semina. Inoltre, poiché l’Orto Fascista era alquanto
distante dalla sede della scuola, bisognava provvedere
alla realizzazione di un riparo, anche se piccolo,
per gli attrezzi. Come al solito si pensò di affidare l’incarico
alla locale Associazione Alpini, che era sempre disponibile
a dare una mano a chi avesse bisogno. Così in
breve fu costruito un piccolo deposito in muratura di un
metro per un metro, con la sua bella porta in legno munita
di un robusto chiavistello con lucchetto.

Rimuovere un terreno così duro, abbandonato da anni,
risultò subito impresa difficile per dei ragazzini che, oltre
tutto, dovevano lavorare con attrezzi pesanti e non adatti
alla loro altezza. D’altra parte l’inverno era alle porte e
il momento della semina vicino. O abbandonare l’impresa
o far intervenire, sperando nell’indifferenza delle
autorità verso una soluzione non desiderata dal Regime,
i soliti alpini volontari. E così fu fatto. Nessuno pensò di
avanzare critiche o suscitare polemiche, anche perché la
situazione in valle continuava a complicarsi per la sempre
maggior presenza di partigiani e per i rapporti con i
tedeschi che, dopo una iniziale esultante accoglienza da
parte dei fascisti locali, si erano alquanto raffreddati sia
per la intransigente durezza che i tedeschi ponevano nell’affrontare
qualsiasi situazione, sia perché, in fondo alla
mente di ognuno, rodeva un piccolo tarlo che diceva,
sottovoce, “attento che la guerra finisce male per voi,
non vi esponete troppo”. Le teste calde, naturalmente,
c’erano ancora, ma tendevano a diminuire di numero
con una certa celerità.

Gli alpini furono come al solito molto sbrigativi ed organizzati.
Nel giro di una settimana il terreno era pronto
alla semina del grano: bastava tracciare i solchi, lavoro
che non fu compiuto da loro per dare la soddisfazione ai
bambini di effettuarlo. Quando tutto fu a posto venne
organizzata la cerimonia della semina. Non una cerimonia
importante come quella per la nascita dell’Orto, ma
comunque furono invitati ed intervennero, il Podestà, il
Parroco, il Segretario del partito, il Direttore delle Scuole
di Breno, il Maresciallo dei Reali Carabinieri, il responsabile
dell’Associazione Alpini della Valle Camonica, il
Generale Ronchi – nonno di Ernesto, il Direttore dell’ospedale
e le rappresentanze delle altre scuole del paese.

Quattro bambini, portando a tracolla un sacchetto che
conteneva le sementi, tenendosi a distanza di un paio di
metri l’uno dall’altro, iniziarono a percorrere a passi lenti
il campo, lanciando, con ampi gesti del braccio, i chicchi
di grano sul terreno lavorato. I poveretti avevano
dovuto rinunciare per due settimane a tutte le ricreazioni
per imparare a camminare tenendo tra loro la stessa
distanza, alla stessa velocità e a compiere con sincronismo
il gesto del braccio impegnato nella semina. Dopo
tanta fatica erano riusciti a raggiungere un buon risultato,
tanto che il Podestà dichiarò in una intervista rilasciata
al “Giornale della Valle” che “l’incedere dei piccoli seminatori,
incedere altero nella loro consapevolezza di essere
parte di un grande progetto che solo il Duce aveva
potuto partorire nella sua illuminata lungimiranza, ricordava
quello dei pazienti buoi (???) che trascinano l’aratro
con serietà e fermezza. Un gran bel vedere: con il
gesto della semina che ricordava il colpo d’ala dell’aquila
fascista”. Non era riuscito ad inserirci anche i fasci littori
ma in compenso non ci si capiva nulla.

CAPITOLO XIV

Aveva parlato ai bambini e loro avevano accettato
con entusiasmo. Il gioco e l’avventura li intrigava.
Avevano eseguito le indicazioni del farmacista e si erano
incontrati con il Russì. Preso il pacchetto di concime, lo
avevano appoggiato in fondo al sacco da montagna e lo
avevano ricoperto con delle foglie di fico e, sopra, quattro
o cinque porcini che avevano raccolto.

Presa la strada per il paese, scesa la via S. Antonio, superato
il “crusal”, erano giunti in piazza Mercato. Poi, giù verso
il fiume, erano arrivati al gabbiotto dell’Orto Fascista.
Ernesto, che era diventato un po’ il sostituto della maestra
nella conduzione dei lavori e aveva la chiave del lucchetto,
aprì la porticina.

Estrassero il pacchetto di concime dallo zaino e stavano
per riporlo nel gabbiotto quando furono bloccati da
quattro braccia robuste e ricoperte da una camicia nera.
I proprietari delle braccia si impossessarono del pacchetto
e tenendo ciascuno con una mano il collo di uno dei
ragazzini, li costrinsero a seguirli sino alla Casa del Fascio,
ove aveva sede il comando della Brigata Muti.

Qui i due ragazzi vennero legati strettamente ciascuno
ad una sedia, in attesa che qualcuno cominciasse l’interrogatorio.
Furono preparati pinze per strappare le unghie, ferri da
arroventare per marchiare chissà dove i ragazzi, spilloni
per poter continuare le torture.

Di fronte a Ernesto e Mario, pure lui legato strettamente
ad una sedia, vi era il Temperini, un Temperini tutto
tremante ed ansimante.

Era sicuro che i suoi compagni di prigionia, sotto tortura,
avrebbero spifferato tutto ai fascisti e lui sarebbe finito
in un bel casino. Avrebbero sicuramente iniziato a torturarlo
per conoscere il nome dei suoi complici, e lui
sapeva di essere un vigliacco e di non sopportare il dolore.
Li avrebbe denunciati e sarebbe passato alla storia come
un traditore. Purtroppo, per chissà quanto tempo,
qualcuno avrebbe ricordato la storia di quel fetente di farmacista
che aveva, con le sue pretese da rivoluzionario,
incasinato il paese e con la sua vigliaccheria mandato al
patibolo almeno due dei più onesti e valorosi paesani.
Si guardò ancora in giro per illudersi di avere una possibilità
di fuga. Le due finestrelle che illuminavano a stento
la piccola stanza erano ad almeno tre metri dal pavimento.
La porta era in pesante legno con una serratura a
quattro mandate.

Improvvisamente vi fu un forte rumore, come se qualcuno
picchiasse violentemente contro la porta, e il farmacista
pensò che stessero arrivando i suoi aguzzini. Il bussare
continuò sempre più violento sino a quando, finalmente,
il Temperini si svegliò dall’incubo, bagnato completamente
di sudore.

Si alzò dal lettino, che era stato messo nel retro della farmacia
per le notti di turno, si mise la vestaglia e si diresse verso
il portoncino d’ingresso con le gambe che mal lo sostenevano.
Aveva la bocca amara e la testa che gli doleva.
Riusciva a tenere a malapena gli occhi aperti: quasi fosse
reduce da una notte di grandi bevute. Aprì lo spioncino e
per poco non gli venne una sincope: al di là della porta un
viso arcinoto, quello dell’Hauptmann Reserve Franz.
Questi guardò il viso terreo del farmacista con una strana
espressione, poi tentò di sorridere e indicò al Temperini
il gonfiore che aveva sotto la guancia destra.

“Come dite voi? Scesso? Io molto dolore, non dormire.
Possibile cachet? Scusare per disturbo. Grazie”.
Aveva parlato tutto d’un fiato come se avesse preparato il
discorso in anticipo scegliendo con cura tra le poche
parole di italiano che conosceva.

Il farmacista non si scostava dalla porta, non riusciva
proprio a comandare le gambe. Non sapeva come fare.
Poi raccolse tutte le sue forze, fece un mezzo sorriso al
tedesco, andò al banco, aprì un cassetto, prese una manciata
di cachets e li mise in un sacchettino di carta. Ritornò
alla porta e, attraverso lo spioncino, passò il sacchetto
al tedesco.

“Gratis” disse con un altro mezzo sorriso, richiuse lo
spioncino e andò a sedersi sulla sedia più vicina. Non
aveva mai conosciuto il terrore ma adesso sapeva cosa
fosse: si sentiva vuoto dentro, senza capacità di ragionamento
né di difesa, incapace di muovere gambe e braccia
mentre una paura angosciante lo avvolgeva tutto e lo
faceva tremare e sudare.

Ma come avevano potuto pensare, lui ed il Russì, di
coinvolgere in un fatto tanto grave dei bambini! Usarli,
mettendoli in pericolo per raggiungere i loro scopi. Di
una sola cosa ora era sicuro: mai e poi mai i bambini
sarebbero stati coinvolti, anche a costo di abbandonare
l’idea o di litigare con il suo amico.

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