L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 29-30

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XXIX

Il Podestà aveva convocato la Consulta Municipale per
le 8 e 30. I sei membri erano stati svegliati all’alba dal
vigile del comune che era andato a casa loro a consegnare
la convocazione.

Il Bertoli voleva consultarsi non sapendo bene come
comportarsi in questa drammatica occasione. Aveva pensato
di esporre la bandiera a mezz’asta al balcone del
municipio, ma non sapeva se questa soluzione sarebbe
apparsa troppo servile nei riguardi dei tedeschi. In fin dei
conti si era in guerra e la morte di un soldato era, purtroppo,
cosa normale. Neppure il Segretario del Fascio
aveva, almeno per ora, avanzato richieste in tal senso.
Era deciso ad effettuare, insieme ai suoi aiutanti, una
visita al Comandante della guarnigione tedesca per porgere
le sue condoglianze e per mettersi a disposizione per
i funerali e il trasporto della salma, o meglio di quello
che rimaneva di Bernd, che era stata temporaneamente
portata nella camera mortuaria dell’ospedale.

Era molto timoroso per la possibile reazione che Franz
avrebbe potuto avere nei suoi confronti e, per questo, il
fatto di presentarsi in gruppo, poteva rendere la cosa
meno imbarazzante. Non che temesse di essere insultato,
ma che il Comandante potesse avere frasi di violento
rimprovero verso i brenesi, questo era da aspettarselo.
Quando il gruppo di amministratori si riunì, vi furono
violente discussioni. Chi voleva non solo l’esposizione
della bandiera a mezz’asta ma anche che venissero proclamati
tre giorni di lutto cittadino. Chi, invece, era convinto
che si doveva lasciare passare il fatto sotto silenzio,
con la sola “ufficiale” presenza del Sindaco e della Consulta
con la bandiera del paese all’eventuale funerale. La
parte strettamente politica doveva essere lasciata agli organi
del Fascio che, sicuramente, sapevano, meglio di
loro, come trattare con i tedeschi. Alla fine fu da tutti
accettata quest’ultima soluzione, anche se qualcuno evidenziò
il proprio personale dissenso.

Non sapendo dove trovare Franz, si recarono all’albergo
Fumo. La vettura, o meglio quello che restava della vettura,
era stato rimosso e portato al garage Slanzi. Le macchie
di sangue, miste all’olio del motore, erano state ricoperte
da un alto strato di segatura. La buca, provocata
dall’esplosione, era ancora aperta. Ad alcune finestre delle
case che davano sulla piazza si stava lavorando per
sostituire i vetri rotti dallo spostamento d’aria.

L’unica cosa che impressionò Sindaco e consiglieri era
che le strade e la piazza Mercato fossero assolutamente
vuote. I negozi erano aperti ma nessun brenese era in
circolazione, quasi che si temesse una ritorsione da
parte dei tedeschi.

Trovarono il Comandante nella piccola hall dell’albergo,
circondato dai suoi subalterni. Pallido, con la divisa
sporca e stropicciata, le mani che si muovevano, scompostamente,
dai capelli alle ginocchia, dalle ginocchia ai
gomiti, e poi di nuovo ai capelli. Quasi un tic nervoso.
Non si alzò dalla poltrona nella quale era seduto. Si
limitò a stringere la mano al Podestà e a fare un cenno
con la testa ai consiglieri. Sussurrò un “danke” e poi, a
congedarli, girò la testa di lato come a guardare qualcosa
che non c’era.

Imbarazzati i sette uomini salutarono i militari e,
non sapendo cos’altro fare, girarono sui tacchi e se
ne andarono.

CAPITOLO XXX

Col passare delle ore in paese cresceva la preoccupazione.
Ormai si sapeva che lunghi convogli di carri,
abitualmente usati per il trasporto degli animali e con le
porte piombate, partivano da varie stazioni italiane per la
Germania. Non si sapeva ancora dei campi di sterminio
ma il modo con il quale venivano trattati i deportati non
lasciava presagire nulla di buono. Si raccontava di centinaia
di persone prelevate in vari paesi della penisola dove
era stato dato aiuto o ospitalità ai partigiani.

A Breno era stato ucciso un tedesco e sicuramente la rappresaglia
non sarebbe tardata. Il mistero su chi avesse
compiuto quell’atto, e soprattutto le modalità con cui si
era verificato, lasciavano tutti perplessi.
La sparizione del Russì era passata inosservata anche perché
l’uomo non era stato visto in giro neppure i giorni
precedenti all’attentato.

Tutti sapevano che quello strano personaggio a volte spariva
dalla circolazione per settimane intere, da solo o con
qualche donna, per passare il tempo negli alpeggi vicino
a Bazena o verso il Passo del Maniva.

L’Ovra non si era mossa, ufficialmente non avendo ricevuto
ordine da parte dei tedeschi di farlo. La situazione
era particolarmente scabrosa e quindi, se possibile, era
meglio defilarsi. Del tutto discretamente don Cappelletti
era stato invitato a Brescia.

Avevano anche preso contatto, ancor più segretamente,
con il Podestà di Breno perché convincesse sua moglie,
Lucia, a recarsi a Brescia alla loro sede. A volte, si era
pensato, i bambini sanno più cose di quelle che dovrebbero
e qualche frase compromettente avrebbero potuto
lasciarsela scappare. Coinvolgere qualche maestra e soprattutto
la signora Lucia, così fedele al Regime, avrebbe
potuto portare qualche frutto.

Due giorni dopo l’attentato partirono per Brescia, all’insaputa
l’uno dell’altra, il Parroco e la maestra.
Il prete, come quasi sempre, era riuscito ad ottenere un
passaggio su un veicolo di servizio. La maestra, molto
più modestamente, era partita per la città con il “Gamba
de legn”.

Per la maestra signora Lucia era una emozione nuova
andare a Brescia. Infatti tutti gli abitanti della Val Camonica,
quando dovevano andare in città per qualche
acquisto importante o per qualche visita medica specialistica,
si recavano a Bergamo, città più facilmente e più
velocemente raggiungibile. Lucia conosceva pochissimo
Brescia. Le avevano detto che la sede dell’Ovra era in una
strada che partiva da Piazza Tebaldo Brusati e, giunta alla
stazione di Brescia, con il solito abituale ritardo, non se
l’era sentita di chiedere come raggiungere la piazza rischiando
di perdere ulteriore tempo. Aveva quindi deciso
di noleggiare una carrozzella trainata da uno scheletrico
cavallo senza dare, per non suscitare curiosità, l’indirizzo
al quale era diretta, ma chiese al cocchiere di portarla
in piazza Brusati.

Don Cappelletti, nel frattempo, era a colloquio con il
solito funzionario dell’Ovra. Cercava di indorare il più
possibile le poche e vaghe notizie che aveva da riferire e
di mostrarsi più ossequiosamente disponibile a tutte le
raccomandazioni che gli venivano propinate per cercare
di non perdere l’abituale ricompensa.

“Andate” disse alla fine il funzionario e, facendo il solito
segnale al sottoposto che era venuto a prelevare il prete,
soggiunse “e buon divertimento!”

Don Cappelletti, raggiunta la solita stanza e sedutosi sul
letto, cominciò a spogliarsi.

Lucia, giunta alla porticina contrassegnata dal numero
civico che le era stato detto, si guardò velocemente intorno,
augurandosi che nessuno dei passanti la notasse, e
suonò il campanello. Le venne ad aprire un giovane pallido
ed allampanato che, vedendola, ebbe una strana
espressione di meraviglia.

“Sei nuova tu?” chiese facendola entrare. Lucia rimase
meravigliata dal tono di voce e dal fatto che questi le si
rivolgesse col tu.

– Ma guarda te che gnocca che si becca quello stronzo di
prete – pensò il giovane che la prese, con poca delicatezza,
per un braccio e la guidò sino ad una porta in fondo
ad un buio corridoio.

“Entra” le disse ancora, lasciandole il braccio e riavviandosi
verso l’ingresso.

Lucia, sempre più imbarazzata, rimase un attimo ferma
davanti alla porta. Poi si fece coraggio e la aprì. La stanza
era semibuia. Dall’unica finestra filtrava una scarsa
luce a causa delle persiane chiuse.

“Entra, dai, e spogliati, che ho fretta!” disse una voce che
giungeva da un posto imprecisato della stanza.
Una voce scostante ma imperiosa che fece trasalire la donna.

– Io questa voce la conosco! – si disse tra sé e sé, ma non
riusciva a ricordare a chi appartenesse.
Quell’ordine finì di farle perdere la poca lucidità che le
era rimasta. Si mise a tremare tutta impaurita e non
riuscì ad evitare di iniziare a fare quanto le era stato ordinato.
Non riusciva bene a vedere cosa ci fosse nella stanza.
Intravide una seggiola sulla quale depositò i vestiti e
la biancheria intima mano a mano che se la toglieva.
Intravide anche un grande letto al centro della stanza ma
non capì se fosse occupato da qualcuno. Quando ebbe
finito di spogliarsi si rese conto della grottesca situazione
nella quale si trovava e, per proteggere la propria nudità,
non ebbe migliore idea di quella di precipitarsi nel letto
e coprirsi con il lenzuolo. Sempre tremando e ad occhi
chiusi, rimase ferma in posizione supina in attesa che
qualcosa avvenisse. Ma fu un attimo: una mano fredda e
sudaticcia si posò in mezzo alle sue cosce cercando di
divaricarle. Non fu difficile perché la donna, ormai in
stato di semi incoscienza, subiva tutto passivamente.
Qualcuno le stava montando sopra con l’intento di penetrarla,
ma quando il suo viso e quello del suo violentatore
si trovarono a poca distanza, la stessa voce di prima
si mise ad urlare.

“Madonna mia, ma non è possibile. Oh Signore, oh
Signore, cosa sto facendo!”

In quel mentre la porta si aprì e la luce venne accesa. Una
donna molto prosperosa ed alquanto volgare entrò nella
stanza, guardò verso il letto e scoppiò in una sonora risata.
“Guarda, guarda questo sporcaccione” disse la donna con
profondo accento emiliano. “Adesso non gliene basta più
una, vuol fare l’ammucchiata! Purscel!” e si rimise a ridere.

Lucia, ritornando in sé, iniziò ad urlare.

“Aiuto, aiuto, aiutatemi, per favore!”. Nel contempo pensava:
– Perché non svengo. Madonna, per favore, fammi
svenire! –

A quelle urla il vano della porta si riempì per la presenza
del giovane allampanato, del funzionario e di altri tre o
quattro poliziotti. Tutti rimasero bloccati, allucinati dalla
situazione e impreparati a gestirla. L’unica a non aver
perso il controllo era la prostituta, abituata alle situazioni
boccaccesche, i veri casini. Si rivolse agli uomini che
erano fermi sulla porta:

“Via, via, non c’è niente da vedere!” e li spinse fuori dalla
stanza.

Poi rivolgendosi a don Cappelletti gli disse:

“Tu, fuori dalle palle. Per oggi hai scopato abbastanza.
Prendi i tuoi vestiti e vattene.”

Il prete, anche lui meccanicamente, si alzò dal letto e, presi
biancheria e tonaca, si diresse verso la porta. Prima di uscire
si girò verso Lucia. Fu allora che questa lo riconobbe.
Un lamento di bestia ferita le sgorgò dal profondo dei polmoni
e un pianto isterico cominciò a scuoterla tutta.

 

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