L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 39-40

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XXXIX

Alle 13,50 il Parroco era davanti all’albergo Fumo
dove era parcheggiata la Fiat 1500 dell’Ovra di Brescia.
Il commissario gli fece cenno di salire e don Pompeo
si accomodò sul sedile anteriore. Nessuno dei due
ebbe il coraggio, dopo un frettoloso saluto, di fare riferimento
agli accadimenti del giorno precedente.

Don Pompeo, che guardava davanti a sé verso il muro
dell’albergo temendo di incontrare lo sguardo dell’altro,
disse solamente:

“Vi ringrazio di essere venuto. Ho deciso di parlare con
lo Sturmbannführer perché so chi ha commesso l’attentato
alla loro macchina e voglio chiudere la faccenda. Vi
prego, ora andiamo, prima che io perda il coraggio.”
Ciò detto scese dalla vettura, e, seguito da un commissario
sempre più perplesso, attraversò il breve tratto di
piazza che li separava dall’ingresso dell’albergo e vi entrò.
Nella vecchia sala da pranzo trovarono l’ufficiale tedesco,
l’Hauptmann Reserve Franz, due SS e, con grande meraviglia
di Pompeo, Annetta.

Le presentazioni furono veloci. Lo Sturmbannführer
guardò male il commissario ma non avanzò alcuna obiezione
per la sua presenza. Vi fu un minuto di imbarazzato
silenzio e poi il prete prese la parola.

“Scusi se mi permetto, ma voi siete cristiano?”
“Certo” si affrettò a tradurre la risposta Annetta. “Pro-
fondamente cristiano, al contrario di tanti italiani che
usano il cristianesimo solo per salvaguardare i propri
interessi”.

– Cominciamo bene – pensò il prete ma fece finta di non
aver capito l’offesa.

“Ieri sera” riprese don Pompeo, “mentre ero in confessionale
ho ricevuto la visita di due uomini, padre e figlio provenienti
da un paese qui vicino. Si sono dichiarati colpevoli
dell’attentato e della morte del vostro soldato. Hanno
affermato che questi aveva messo incinta la loro figlia e
sorella ma non era disposto ad ammetterlo. La sera dell’attentato
il vostro soldato aveva dato appuntamento alla
ragazza sull’auto, perché voleva appagare, ancora una volta,
i suoi turpi desideri sessuali. I due uomini avevano perso
il lume della ragione e, usando dei candelotti di dinamite,
avevano fatto saltare in aria l’auto ed ammazzato l’odiato
seduttore della ragazza. Questo è tutto quello che
posso raccontare. Mi è sembrato giusto mettervi al corrente
dell’accaduto perché l’uccisione non è stata un delitto
politico, ma solo l’opera di un padre e di un fratello offesi
nella loro dignità. Una cosa terribile e obbrobriosa ma,
comunque, un fatto strettamente personale. Ho inviato
uno scritto, riportando quanto vi ho raccontato, ai miei
superiori, ritenendo doveroso sapessero di questa mia
azione e decidessero se e quanto ho sbagliato. Sono pronto
a subirne le conseguenze”.

Nella stanza cadde un profondo silenzio, interrotto solo
dall’ansimante respiro dello Sturmbannführer che cresceva
sia per rumorosità che per velocità.
Franz non credeva una parola della versione data dal
prete ma si sentì improvvisamente sollevato dal fatto
che non avrebbe dovuto dare spiegazioni quando, prima
o poi, gli avrebbero chiesto come mai il suo compagno
di stanza fosse andato, munito di coperta, a passare
la notte nell’auto.

Anche il commissario non credeva una parola della versione
data dal prete, ma si sentì improvvisamente sollevato
dal fatto che l’attentato, da strettamente politico,
si stesse sgonfiando finendo, all’italiana, in una questione
di sesso.

La stessa Annetta non credeva una parola della versione
data dal prete – chi voleva fare sesso in valle, dove di sesso
se ne intendevano, essendo uno dei pochi svaghi possibili,
non era sicuramente costretto a farlo in macchina
potendo sempre trovare ospitalità da amici o amiche
consenzienti – ma si sentì improvvisamente coinvolta in
una storia così drammatica ma così romantica.

L’ufficiale delle SS, che a causa della respirazione forzata
cominciava ad avere le labbra imbiancate di saliva schiumosa,
riuscì a riprendere un poco di calma. Con voce
anonima disse:

“I nomi dei due! Voglio i nomi dei due. Adesso, subito!”
Terminò la frase urlando e alzandosi di scatto dalla poltrona
sulla quale era seduto. Nell’alzarsi perse il frustino
che aveva in grembo e, raccoltolo, iniziò a frustarsi violentemente
il palmo della mano sinistra.

“Voi avete detto di essere cristiano, signor Sturmbannführer,
e quindi sapete che un sacerdote non può dire a
nessuno il nome della persona che, in confessionale, gli
ha rivelato un’azione peccaminosa compiuta” rispose il
sacerdote che, dopo il suo, sperava credibile racconto,
aveva riacquistato una serena calma. “Si dice il peccato
ma non il peccatore. Come si suol dire” continuò con
tono quasi scherzoso.

Il commissario che aveva raccolto notizie dal prete sui
comportamenti dei suoi concittadini con nome, cognome
ed indirizzo di chi li aveva compiuti, quasi scoppiò a
ridere, ma riuscì a trattenersi. – Se il tedesco ci crede, per
me va benissimo – pensò.

“Questo lo dite ora, prete. Ma troveremo, e come lo troveremo,
il sistema per farvi parlare. Per ora vi dichiaro in
arresto e poi vedremo”. Si rivolse quindi, con un ringhio,
alle due SS presenti che si avventarono sul povero don
Pompeo e, presolo per le braccia, lo trascinarono fuori dall’albergo.
Caricatolo in macchina lo trasportarono d’urgenza
nella casa ove erano stati imprigionati i 18 cittadini.

“Non voglio che si sappia nulla di quanto abbiamo sentito
in questa stanza, traducete!” si rivolse ad Annetta.
Quindi, sempre infierendo sul palmo della sua mano
sinistra abbandonò, a lunghi passi, la stanza.

CAPITOLO XL

Quando il prete apparve in cima alla scala, tra i 18
imprigionati serpeggiò la paura. Se avevano mandato
un prete per confortarli e, eventualmente, somministrare
i sacramenti, era perché il loro destino era stato
deciso e la loro esecuzione vicina.

Don Pompeo capì al volo la situazione e, con un sorriso
non troppo ampio dato il momento tragico, disse ad alta
voce perché tutti lo sentissero:

“Allegri, sono qui non per darvi l’estrema unzione o per
ascoltare i peccatacci che avete sicuramente commesso.
Sono qui perché hanno pensato che anche un prete possa
essere loro nemico e che è bene quindi tenerlo al fresco.”
Continuò quindi raccontando l’incontro avuto con lo
Sturmbannführer, guardandosi bene dal far capire che
era tutta una bufala: tra i 18 ci poteva essere anche una
spia dei tedeschi. Meglio essere assolutamente cauti.

Gli imprigionati non erano sicuramente in buone condizioni
dopo tante ore di detenzione, ma si sentirono un
po’ più sereni quando ascoltarono il racconto del prete.

Se i tedeschi avessero scartato l’ipotesi politica, la loro
reazione, forse, sarebbe stata meno violenta.

Non era stato dato loro né un goccio d’acqua né, tanto
meno, da mangiare. Per i loro bisogni avevano usato un
tubo di cemento rotto che spuntava a livello del pavimento
in terra battuta e non si sapeva dove finisse.

Purtroppo non avendo una sufficiente inclinazione gli
escrementi ristagnavano e nell’ambiente aleggiava un’orribile
puzza di urina.

Lo scantinato era diviso in tre locali senza porte: solo due
ricevevano una scarsa illuminazione da una finestrella
vicina al soffitto. Poiché lo scantinato era quasi completamente
interrato, le finestrelle dovevano essere all’altezza
del giardino che circondava la casa. A quell’ora la luce
cominciava a scarseggiare e gli ambienti erano praticamente
al buio.

“Non voglio sfruttare la mia posizione di prete” disse
don Pompeo cercando di mantenere un tono il più
scherzoso possibile, “e non voglio fare neppure il rompiballe”
continuò. “Ma, data la situazione nella quale ci
troviamo, pregare un po’ il nostro Dio, sperando che ci
dia una mano, non farà sicuramente male a nessuno. Io
inizio a recitare il rosario, chi ha piacere risponda. Gli
altri sono solo pregati di non disturbare”. Ma tutti, credenti
e no, questi ultimi dapprima stentatamente, risposero
alla preghiera.

Alle diciassette la porta fu violentemente aperta. Una SS
scese rumorosamente la scala e, preso per un braccio don
Pompeo, lo spinse verso il piano superiore pronunciando
in tedesco parole incomprensibili, ma che suonarono
a tutti minacciose. Ritornando poi nello scantinato si
guardò intorno ed indicato uno dei presenti, scelto a
caso, lo invitò con un gesto a dirigersi verso la porta che
aveva lasciato aperta.

Fausto Domeneghini, il figlio del pasticcere del paese, un
uomo di circa 40 anni timido e introverso, che sicuramente
non aveva mai fatto male a nessuno, si trovò così
a essere la prima vittima del furore tedesco.

Insieme al sacerdote fu portato, da due SS grandi e grosse,
in una piccola stanza del primo piano. Una stanza
desolatamente vuota ad eccezione di due sedie, una sistemata
in un angolo e l’altra al centro della stanza.

Sulla prima fu fatto sedere don Pompeo, al quale furono
legate le mani dietro la schiena e le caviglie alle gambe
della sedia. Sulla seconda il Domeneghini, al quale fu
riservato lo stesso trattamento.

Quando i due furono sistemati, la porta si aprì ed entrò
lo Sturmbannführer, seguito da una pallida e tremante
Annetta.

Questa, evidentemente sollecitata dall’ufficiale tedesco,
chiese ancora al Parroco se intendeva o meno rivelare i
nomi dei due assassini. Don Pompeo, pur preso da un
attacco di panico, negò ancora la sua disponibilità.

Annetta tradusse la nuova lunga frase che il Comandante
le aveva detto, con voce quasi piangente

“Voi, don Pompeo, non sarete toccato, nessuno vuol
prendersi la responsabilità di farvi del male. Ma il Fausto
sarà picchiato sino a quando non cambierete parere. Ci
pensi, per favore” soggiunse con fervore.

Uno dei militi della SS si tolse la giacca, indossò un grosso
grembiule che chissà dove aveva trovato e che lo rendeva
ancora più minaccioso, strinse nella mano destra un
tirapugni in metallo, che si era tolto da una tasca dei
pantaloni, e cominciò a colpire il Domeneghini che,
tenuto dall’altra SS per i capelli, era costretto a mantenere
il capo eretto.

Pugni violenti al viso, allo stomaco, alle spalle, alle ginocchia.
Uno dietro l’altro, senza un disegno preordina-
to ma che erano mirati a fare più male possibile. L’uomo
iniziò a urlare, mentre il viso diveniva una maschera di
sangue perché il ferro del tirapugni lacerava i tessuti.
Annetta, sempre più pallida, dopo poco si precipitò fuori
della stanza e vomitò rumorosamente.

Don Pompeo più che impaurito era incredulo allo
spettacolo che stava avvenendo sotto i suoi occhi.
Urlò anche lui, pregò che smettessero, li maledisse ma
non ottenne nulla.

Allora si mise a pregare Dio, lo chiamò in causa perché
intervenisse a fermare un simile obbrobrio. Quando la
SS si fermò pensò di essere stato ascoltato. Ma quando
questa, ripreso fiato, ricominciò nella sua azione distruttiva
rimase muto, incapace di fare nulla.

Per fortuna il Domeneghini, non sopportando ulteriormente
il dolore, perse i sensi. Se non fosse stato trattenuto,
sempre per i capelli, sarebbe caduto in avanti
procurandosi altre lesioni. Il viso si stava gonfiando,
l’occhio sinistro era scomparso sotto uno strato di sangue
e neppure si vedeva se esistesse ancora. Ferite sulla
fronte e sulle guance. Pure le ginocchia, colpite più
volte, si vedevano sanguinare attraverso i buchi e gli
strappi dei pantaloni.

I due vennero liberati dalle sedie alle quali erano stati
legati e trascinati nuovamente in cantina. Nessuno
dei due si reggeva in piedi. Non il Domeneghini che
non aveva ancora ripreso i sensi, ma che comunque
non avrebbe potuto camminare soprattutto per i pugni
ricevuti alle ginocchia; non il Pompeo che, come
paralizzato dallo shock, non riusciva a muovere né le
braccia né le gambe.

Quando arrivarono in cantina e furono buttati sul pavimento,
il terrore invase la mente di tutti i presenti.
Erano talmente impressionati dalle condizioni del Domeneghini
che nessuno, per minuti, riuscì a muoversi
per dargli aiuto. Un aiuto difficile da fornire, essendo totalmente
privi di acqua o di qualsiasi liquido per pulire e
medicare le ferite.

 

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