📕 La sfida / parte prima | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/12

Erano giorni che Francesco ci pensava.Gli era scattato un irrazionale istinto di sfida:"Posso farcela!" si ripeteva...

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Umberto Tanghetti, scrittore

LA SFIDA / PARTE PRIMA – racconto di Umberto Tanghetti

Erano giorni che Francesco ci pensava.

Gli era scattato un irrazionale istinto di sfida:

“Posso farcela!” si ripeteva.

Alla fine degli anni 40 era poco più che un ragazzo e lo chiamavano Ciccio.

O Cicco, con la prima “c” strascicata:

“Sciccu, comu si?”

Stava bene, Francesco era un grillo, un tipo eccentrico, col fuoco dentro.

Non usciva dalla porta, si calava dal balcone del primo piano, con sua madre che ogni volta tratteneva il respiro e lo riempiva di rimbrotti (“Tu mi vuoi vedere morta d’infarto!”), ma lui e la luce arguta che aveva negli occhi erano già arrivati in piazza col sorriso sotto il filo di baffi che si era fatto crescere.

Camminava sulle mani e sapeva fare il giro della morte saltando a piè pari; poi faceva finta di togliersi il cappello e si inchinava ad un pubblico immaginario che i suoi 20 anni gli mettevano davanti: esuberanza, simpatia, sguardo vispo proiettato in avanti, ribellione agli schemi, originalità.

Era, Sciccu, il sale nel primordiale brodo dell’ordinario sciapo e prestabilito.

Era il vento di tramontana che rinfresca le torride giornate estive.

Così gli si accese la voglia di sfidare un mezzo a motore e di batterlo con le armi che i motori non hanno: inventiva, preparazione, perseveranza.

Era relativo il senso di una gara contro un automezzo, ma questa apparente assurdità sarebbe stata un diversivo di cui parlare per giorni, un ricordo dell’età giovanile di cui compiacersi, ripensando alla sapidità dei tempi in cui niente era tutto.

Iniziò a concepire il suo progetto concretizzandone la fine : la zia Titì sarebbe stata per lui la ciliegina sulla torta, la medaglia da mettersi allo stomaco ( mica al collo! ) in caso di vittoria o più semplicemente, la sfida era il pretesto per arrivare ai maccarruna con la salsa che la zia sapeva fare come poche altre.

La andò a trovare in paese un pomeriggio chiedendole quando sarebbe iniziato il suo periodo di villeggiatura in campagna, al Ferricino.

“Ci vaio a simana prossima e ci staiu du’ misi!” gli rispose.

“Bene zia, se ti verrò a trovare, un piatto di busiati cu la sarsa e macàri due milinciane fritte me li preparerai?” le chiese.

E lei, da zia che vedeva in lui il bimbo d’un tempo, rispose: “Certo! Ti aspetto!”

Messo al sicuro il premio, si trasferì anch’egli in campagna ad una manciata di chilometri dal Ferricino, in una località chiamata Casale dove c’era un baglio in cui trascorreva l’estate con altri zii e i cugini suoi coetanei Vito e Antonio.

Era a loro che avrebbe lanciato la sfida, gli unici che ne avrebbero capito davvero il senso, gli unici che, canzonandolo bonariamente, avrebbero in realtà fatto il tifo per lui.

Passava, in fondo al vallone di quella campagna lungo un budello di strada bianca, la Pintajota, la corriera di linea che collegava Partinico ai paesi dell’entroterra: Camporeale, Roccamena, San Giuseppe Jato..

La corsa era regolare: una al mattino all’andata e una alla sera al rientro.

La Pintajota era un mezzo assai moderno e tirava, in fase di spinta o di rilascio, certe fucilate dai tubi di scappamento che si sentivano a chilometri, quasi fosse quello il modo di annunciare il proprio arrivo.

La si udiva, dunque, da lontano, permettendo a chi doveva andare nell’entroterra di affrettare il passo in caso di ritardo o di avere conferma dell’imminente arrivo.

Capitava anche di captare esclamazioni di disappunto a denti stretti:

“Buttagghia di lu sceccu, la pirdìvi!” sentendo quel rumore di scoppiettamento che si allontanava..

Sciccu andava in estate al Casale, una collinetta, quasi un seno di incipiente pubertà, con una visuale assai privilegiata rispetto al territorio circostante.

Guardando verso nord, il Golfo di Castellammare sembrava essere delimitato da due braccia proiettate nel Tirreno, in segno d’accoglienza, da punta San Vito a Capo Rama.

Si fermava spesso a contemplare quel posto, a respirare l’aria che la campagna mescolava con i profumi delle stagioni, a riempirsi gli occhi della luce abbacinante dell’estate o a parlare con la stella polare la notte, quando il buio e la luminosità celeste erano avvolgenti:” Almeno tu sei ferma!” le diceva.

Da quella altura fino al mare era tutta una campagna duramente coltivata , la campagna in cui si passavano le lune a coccolare con fatica i frutti che la terra aveva da offrire: l’uva, le olive, il melone purceddu, i pomodori, le melanzane, i fichi, i tinnirumi, le mandorle..

Era lì che nascevano le prelibatezze che si potevano gustare a tavola e di quelle prelibatezze, i frutti  erano il segreto più autentico: senza la materia prima di quella campagna, potevi scordarti quei sapori.

Una sera, durante le chiacchiere con la simenza da sgranocchiare nel baglio prima di andare a letto, Francesco chiamò con un cenno di sopracciglio Antonio e Vito.

Uscirono e sotto il gelso bianco, fuori dal portone, Sciccu disse:

” Picciò, domani sfido la Pjntaiota e la batto in velocità!”

“Si vabbè! La sasizza arrostita ti deve aver dato alla testa!”  gli disse Antonio mentre Vito sorrideva in attesa.

“Il progetto è questo: ora io mi vado a curco nel mio letto e domani mattina, appena sentirò arrivare in lontananza la Pjntaiota da Partinico, mi alzerò, mi vestirò al volo e correrò a intercettarla prima che abbia superato il crocevia delle case Faraci. Salirò su quella corriera e scenderò dalla zia Titì da dove vi comunicherò vittoria o sconfitta!”.

“Non ce la farai – disse Antonio – È un bel pezzo da qui ai Faraci.. Aggiungo una mangiata di  merluzzo: se vinci, io a te; se non ce la fai, tu a me.

“Qua la mano!” rispose Francesco.

Vito era più possibilista:

“Se ti sarai giocato bene le tue carte, ce la farai.

Ma non hai margine: niente imprevisti.

Ti presto la Guzzi per un mese se ti riesce la sfida; se butta male per te, invece, vieni ad aiutarmi in officina per lo stesso tempo”.

“Affare fatto!” rispose Francesco.

La sfida aveva preso la sua forma: con la Guzzi a scorrazzare dopo una bella mangiata di pesce.

Non poteva fallire.

Andarono, come al solito, a dormire tutti e tre nella stesso stanzone soppalcato al primo piano, percorrendo una scala a pioli quasi verticale che aveva i corrimano su entrambi i lati.

Il pavimento al piano terra era acciottolato a formare dei riquadri il cui interno era riempito da lastre di tufo: i ciottoli e il tufo rendevano l’ambiente spartano, ma curato, rassicurante, dignitoso, addirittura elegante.

Dove bisogna conquistare ogni cosa con la schiena piegata, il superfluo si dilegua come la granita di gelsi al sole e rimane la sostanza, quella che arricria lu spiritu.

Francesco mise i suoi vestiti ordinati sopra una sedia sotto la quale allineò le sue uniche scarpe; solo le calze non si tolse per recuperare qualche secondo l’indomani mattina.

“Picciò buonanotte!” disse ai cugini.

“Notte Cicciù, dormi chi dumani ha essere un griddu!”

Prese sonno ripensando al tracciato che aveva studiato in tutti i dettagli: lo ripercorse a mente dall’inizio alla fine, visionando financo i busiati con la salsa della zia Titì.

Con quel pensiero dolce e saporito sprofondò nel letto..

Durante la notte aveva aperto un paio di volte gli occhi di soprassalto col timore che fosse mezzogiorno e che tutti fossero nel baglio pronti a canzonarlo per l’eternità, ma la luna risplendeva ancora alta e riprese sonno ogni volta.

Poi, d’un tratto, vide qualcuno che lo inseguiva col fucile puntato minacciandolo con sempre maggiore veemenza, avanzando con piglio militaresco:

” Vattene! Questa è la mia proprietà! Volevi rubarmi i gelsi!! Curnutu! Arrè c’ha ppruvare! Ma che hai in quella testa? Fumèri?”

Finché quel ceffo non sparò per davvero: “Pum! Pum! Pum!”

Una raffica!

Fu Antonio il primo a svegliarsi:

“Ci’, la Pjntaiota!! Súsiti!!! Presto!!!”

Sciccu scattò in piedi, con quella smitragliata di bielle e cilindri che rimbombava in lontananza all’inizio del vallone, si infilò i vestiti e le scarpe e si catapultò giù dalla scala senza nemmeno fare i gradini, semplicemente impugnando i corrimano in scivolata fino a pianoterra: in un secondo era fuori dal baglio…

Foto di Umberto Tanghetti
Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

LEGGI I RACCONTI DI UMBERTO TANGHETTI PUBBLICATI SU BSNEWS.IT A QUESTO LINK

Ultimo aggiornamento il 21 Aprile 2024 19:37

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