📕 La sfida / parte seconda | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/13

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Umberto Tanghetti, scrittore

LA SFIDA / PARTE SECONDA – racconto di Umberto Tanghetti

(QUI TROVI LA PRIMA PARTE DEL RACCONTO)

Gli zii, già alle prese con le attività di campagna, si allarmarono e chiesero a Vito ed Antonio, arrivati subito dopo, cosa fosse successo:

“Niente! Deve prendere la Pjntaiota al volo!”

Quello scatto accese l’entusiasmo di tutti, creando un capannello che cercava di seguire i tragitti convergenti di Ciccu e del mezzo a motore: era un brulicare di mani che indicavano e che si mettevano a mo’ di visiera per scrutare lontano,

i bimbi saltavano gridando il loro entusiasmo, mentre gli anziani si chiedevano il perché di quella fatica:

” Mischino! Ma picchè?”

Sembrava di essere al Giro d’Italia!

Uscendo dal baglio, Francesco prese subito a sinistra la stradella bianca in discesa che si addentrava nella campagna e imboccò il vigneto nel primo filare fino a metà del campo

dove le vigne, allineate, si interrompevano riprendendo qualche metro più avanti:

era quello uno dei punti in cui, durante la vendemmia, i contadini deponevano le ceste cariche d’uva o dove i muli potevano passare alla fila di vite successiva senza fare il giro di tutto il vigneto.

Proprio quel corridoio libero dalla vigna, trasversale rispetto all’andamento della coltivazione, era essenziale per la riuscita della sua impresa: doveva spostarsi nel quinto filare per evitare il pozzo e il canneto che più avanti gli avrebbero fatto perdere minuti preziosi.

Dalla cima del Casale la gente commentava le traiettorie e si accalorava tifando per lui tendendo l’orecchio alla Pjntaiota che, inesorabile, scoppiettava in avanti.

“Ma che fa?!?! Allunga?? ” chiedeva qualcuno.

“Ma no! Evita il pozzo, ne sono sicuro!”

In quel tratto il vallone era in discesa e Ciccu ne

sfruttarva il vantaggio senza sperperare la posizione di rendita:  volava leggero e agile lungo il declivio, senza essere tracotante, sempre composto e coordinato; doveva dosare le forze per dopo, quando la salita avrebbe imposto la propria potenza.

Nessuno gli aveva insegnato a correre, la sua agilità gli faceva occupare lo spazio con la naturalezza di un gatto e ne aveva piena consapevolezza: non era come quando usciva di casa scendendo dal balcone, quello era un gioco, in un singolo atto si poteva essere sbruffoni, ma questa volta no.

Era troppo strutturata la sua sfida, avrebbe perso la faccia coi cugini proponendo qualcosa che non sarebbe stato in grado di portare a termine e per farlo, doveva sfruttare a briglia sciolta la discesa,  senza commettere l’errore di perdere il passo, la coordinazione.

Dopo un lungo tratto il vigneto, degradando, lasciava spazio in modo improvviso ad un uliveto con un dislivello  troppo arduo da coprire di corsa.

Vito e Antonio, da lontano, parlavano con gli altri chiedendosi se Sciccu avesse considerato che quel dente di terra fosse molto rischioso da affrontare.

“Ma come fa ora? Li c’è un salto troppo alto!” disse lo zio Cola, ma Vito lo tranquillizzò:

” Non preoccuparti! So come fa! In un secondo sarà di là..Glielo ho visto fare altre volte.”

Sciccu arrivò di slancio e abbassò il più possibile il baricentro piegando la gamba sinistra sotto il gluteo e protendendo in avanti la destra, scivolando in un lampo fino all’uliveto dove il terreno cominciava a salire: era sull’altro costone ed ora cominciava la parte più dura.

Era quello il punto più basso del tracciato e si voltò per un istante all’indietro: il Casale non si vedeva e sentiva molto ovattato il rimbombo della marmitta che faceva a gara con le sue pulsazioni.

Iniziò la risalita proseguendo con corsa regolare, attento a dove metteva i piedi, cercando di conservare qualche energia per il tratto finale.

Correre tra le zolle, per quanto lavorate e sminuzzate dagli attrezzi dei contadini, era assai dispersivo e proprio per questo decise di buttarsi sullo sterrato il prima possibile aumentando il ritmo in crescendo fino ai Faraci.

Questo voleva dire due cose: allungare il tragitto e usare la testa.

Voleva dire talento e strategia, chè senza entrambe le cose non si vincono gare.

Voleva dire avere fiato.

Riprese la vecchia strada regia per un lungo tratto cercando di correre senza pensare alla sfida e quindi la abbandonò nuovamente per far l’ultimo strappo, ripido, mal messo, su di un terreno pieno di pietre e grosse zolle.

Ansimava.

Sentiva una fitta all’altezza del fianco sinistro e cominciò ad insinuarsi in lui il pensiero di non farcela.

“Picciò come Dolindo Petri mi finisce..”

Questo nome gli rimase in testa  e se lo vide pure tra i piedi: era pieno di “Petri”, lì per terra.

Quelle pietre rendevano la sua corsa ancora più difficoltosa, proprio nel punto in cui era più stanco.

Iniziò allora un gioco mentale dettato dal limite di sopportazione che stava via via raggiungendo: si ripeteva  frasi per spronare la corsa che era diventata sempre più scoordinata.

“Satannu Petri!” e avanti ancora un pezzo.

Barcollava, correva come fanno i dinoccolati spillungoni: le braccia a vanvera, il busto chinato in avanti, le spalle che si muovevano a dissipare ulteriore preziosa energia, il volto sfigurato dall’agonia di chi non vuole fermare la corsa.

“Masticànnu Petri!” e via via in crescendo in quella digestione della fatica, la caparbietà di non voler mollare, ma la voglia irrefrenabile di farlo, di gettare la spugna.

“Arruttànnu Petri!” sempre più indigeste..

“Agghiuttènnu Petri!” ancora una, ancora uno sforzo!

Fino a mollare mentalmente  e a voler mandare tutto al Diavolo:

“Cacannu Petri!”..

Stava per fermarsi, un crampo allo stomaco lo spingeva a vomitare tutta la voglia di lanciare sfide, a vomitare la voglia di assecondare il suo spirito libero; cominciava a pensare che sarebbe stato meglio stare al Casale a fare la vita di sempre, sarebbe stato meglio accontentarsi della fatica imposta, di non cercare quella gratuita, proprio come i saggi anziani avevano detto: “Mischino, ma picchè?”.

Se li vedeva lì tutti seduti gli zii e i nonni con le mani appoggiate al bastone a guardarlo con occhi di compassione.

Che senso aveva avuto sfiancarsi a quel modo?

Aveva la schiuma alla bocca come la volpe rabbiosa che in quella campagna di polli faceva mambassa; ansimava rigonfiandosi il petto a ritmo incalzante, come la rana che insuffla aria nel gozzo gracidando nelle gebbie ricolme di acqua; aveva sul torso striature di sale del suo sudore essiccato, quasi fosse lo schiumare del mulo sotto il peso di gerle cariche d’uva; puzzava come la capra che macina gli arbusti bruciati dal sole e defeca rinsecchite palline di sterco; aveva le gambe colore marrone di un impasto di polvere e terra: era a tutti gli effetti egli stesso quella campagna, se la portava sul corpo, l’aveva trascinata con sé nella corsa.

Anelava aria vitale con la schiena piegata in avanti e  le braccia appoggiate al muro a secco che costeggiava la strada, tossiva e cominciava a rendersi conto di essere arrivato al traguardo, di essere a destinazione, ma non sentiva la corriera arrivare e si chiedeva se lui fosse in ritardo o in anticipo.

Così sudato e sporco stava quasi per dirsi battuto, ma d’improvviso, vide il muso squadrato e lungo della corriera farsi lentamente spazio in quel tratto in salita.

Non ne aveva percepito il rumore perché la strada era come una trincea costeggiata da muri a secco e la prossimità dello scarno abitato Faraci ovattava il propagarsi delle onde sonore.

Aveva vinto! Ce l’aveva fatta!

Si allungò il suo baffetto in un sorriso di soddisfazione e sebbene fosse annebbiato dalla fatica, scorse alla guida del mezzo il signor Rocca, suo compaesano alcamese e amico di famiglia che prestava servizio nell’azienda di trasporti locale.

L’autista fermò la Pjntaiota nei pressi del ragazzo e spingendo il maniglione attaccato ad un sorta di pantografo, dal suo posto di guida aprì la porta dei passeggeri:

“Ruvolo, scappasti da un orso?” gli disse ridendo, vedendolo conciato a quel modo.

“Signor Rocca, lo sa che qui orsi non ce ne sono, ma ci sono certe carogne!” rispose ridendo anch’egli. “Me lo dà un passaggio fino al Ferricino?”

“Amunì, acchiana!” esclamò sonoramente, accompagnando l’invito con un gesto del capo.

Chiuse la porta davanti ai piedi di Francesco indicandogli, da dietro il parabrezza, di salire sulla pedana di ingresso e di attaccarsi al montante della portiera e all’enorme ruota di scorta che era avvitata alla fiancata: partirono e anche quel trasporto così avventuroso ed entusiasmante faceva parte del premio che lui stesso si era costruito vincendo la sfida.

Era felice, salutava i villani che nei campi fermavano il proprio lavoro al passare di quel personaggio aggrappato alla lamiera di linea: alzava la mano come aveva visto fare al cinematografo alla regina Vittoria e rideva sotto i suoi baffi appuntiti!

Anche il signor Rocca rideva pensando alla gioventù di Francesco e a quella voglia di dissacrare l’incedere monotono di una dura esistenza.

Arrivarono nei pressi del Ferricino e Ciccu scese senza fare arrestare la corriera, aspettando la curva in cui il rallentamento permetteva l’abbandono di quel vascello come fosse un gioco da ragazzi, quale, in effetti, egli era.

Andò diretto nel punto in cui, lungo il muretto che separava la strada dalla proprietà del Ferricino, quelli della famiglia sapevano essere nascosto il loro potente mezzo per comunicare con quelli del Casale: uno specchietto di una vecchia Balilla ormai andata dallo sfasciacarrozze.

Iniziò a farlo brillare con movimenti rapidi e continui: nel loro gergo voleva dire “sì”,”notizie positive”, assenso a discorsi iniziati oppure “ci vediamo domani”. In quel caso era “VITTORIA!”

Al Casale aspettavano arrovellati nel dubbio, quando Vito vide il segnale e scoppiò in un grido di gioia:” Picciò!!! Ce l’ha fatta!!! Figlio di buona donna!!!”

E girandosi verso la zia, madre di Francesco, le stampò un bacio sulla mano dicendo:” Con rispetto parlando!”.

L’entusiasmo dei piccoli era incontenibile, così come gli abbracci in quel capannello di gente.

Ridevano tutti e ancora di più quando Antonio, commentando la loro capacità di comunicare a distanza, disse:

“Ti pare che sulu l’americani usano l’arfabbeto Morsi? A morsi puru nuvatri quattro fili ce li manciamu!” E si picchiava la mano aperta sulla pancia a fare quel rassicurante schiocco di sazietà..

Intanto al Ferricino Sciccu andava incontro alla zia Titì che da lontano lo vide così trasandato che disse:

“Ivi! Cicciù, ma comu si cuminatu? Amu nutricato porci e unni n’amu addunatu!”

“Zietta cara, non sta a me ricordarti come si chiama quel lago sulle Ande, dove gli Inca svilupparono la loro fortuna.. Geografia, non volgarità!”

Anche loro ridevano e così quella che era sembrata un’idea azzardata, una sfida inutile, aveva seminato gioia per tutte le vigne.

Volteggiavan per l’aria in cerca di correnti ascensionali tre poiane, anch’esse intente ad ingoiare pietre che agli umani non è dato vedere: picchiate, risalite, la fatica del vivere e la gioia di scrutare lontano dove il Golfo si tuffa nel mare.

Un paesaggio, foto Umberto Tanghetti
Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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Ultimo aggiornamento il 3 Aprile 2024 21:00

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