📕 Il fiume | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/17

Avrebbero potuto fare diversamente, ma l'ignoranza tranquilla nella quale vivevano li metteva al riparo da tale considerazione. Un' ignoranza leggera che li proteggeva dagli errori di valutazione: una sorta di meno per meno che fa più...

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Umberto Tanghetti, scrittore

IL FIUME – racconto di Umberto Tanghetti

Avrebbero potuto fare diversamente, ma l’ignoranza tranquilla nella quale vivevano li metteva al riparo da tale considerazione. Un’ ignoranza leggera che li proteggeva dagli errori di valutazione: una sorta di meno per meno che fa più. Non sapere per non sbagliare. Non decidere per non restare delusi. Dunque, se qualcuno avesse detto loro che la storia in cui si erano ficcati era stata scritta nel 1979 e che da allora era stata cantata migliaia di volte, non ci avrebbero creduto, non tanto per diffidenza, più per pigrizia. Solo che loro due erano proprio quella storia: non era l’Oklaoma delle verdi pianure, del Red River e del fiume Arkansas, ma la Val Trompia col suo Mella e i rigagnoli che vi confluiscono; i paesi in questione non avevano nomi da cavalcate al tramonto, ma riecheggiavano sagre del formaggio nostrano dopo giornate sui ferri dell’officina. Chessò Tavernole o Pezzaze, tutt’ al più Bovegno; roba da instituire daccapo le abrogate province.

Giovanni era figlio di un operaio specializzato e quella sarebbe stata anche la sua strada: qualche fabbrica lì nella Valle gli avrebbe preso le misure per fare quello che da sempre nella sua famiglia si faceva per portare a casa il salario. Trucioli di metallo nelle mutande, come suo padre o come il nonno che, in più, aveva vinto il viaggio premio al fronte: altri fiumi, altre piane, altre motivazioni. Per Giovanni era come aver appeso fuori dalla porta della cameretta in età adolescenziale la scritta:”Tornio subito!” senza avere altre velleità, vivendo legittimamente quell’occupazione quasi con spirito di appartenenza. Eppure se solo l’avessero saputo prima, lui ed Ester, se solo qualcuno gliela avesse fatta ascoltare quella canzone! Se avessero avuto la forza di comprenderne il senso, come ad avere un’ inaspettata soffiata: “Mi scusi, ragazzo, le consiglio di giocare tutto sul numero 5..” E giù a vincere milioni..

Tutto sarebbe stato più chiaro. Meno sofferto. Meno scritto. Meno piatto.

Giovanni era nato nel 1990 e lei, Ester, nel 91:  per loro, il 1979 era davvero la preistoria. Roba da vecchi che non hanno niente da dire. Antichi. Due palle per definizione. Tuttavia sembrava che loro vivessero con quell’impellente necessità di andare a sbatterci la faccia, necessità tipica di chi deve farsi l’esperienza esistenziale alla quale anelava dall’età del primo motorino.

La conobbe all’istituto tecnico di Gardone Val Trompia, provincia di Brescia: cervello in pappa, tracce di sangue negli ormoni che circolavano potenti in quei giovani vasi sanguigni. Giovanni non pensava ad altro che a lei, trovò il  modo di frequentarla e di farsi notare, di piacerle. E lei gradiva la presenza di quel ragazzo così indefinibile: simpatico, ma taciturno, apparentemente sicuro di sé. Andavano giù al fiume, Giovanni e Ester, là dove il Mella faceva una pozza che gli altri non conoscevano: dovevano camminare lungo la riva e stare attenti a non scivolare per raggiungerla. Ridevano, scommettendo su chi si sarebbe bagnato per primo ed era sempre lei a vincere, perché Giovanni esagerava e si muoveva da sbruffone, troppo confidente nelle proprie capacità di equilibrista e finiva sistematicamente in acqua prima del tempo. Ridevano nuovamente e poi lui la tirava a sé giù al fiume: anche lei in acqua alla pozza. Si amavano lui e la sua piccola. Giocavano a chi stava sotto di più, ma Ester si nascondeva mentre Giovanni tentava di trattenere il respiro due minuti per impressionarla in quella competizione da testosterone. Poi lui la cercava e quando lei si faceva trovare erano felici lì al fiume, dove tutto era loro, dove tutto era perfetto. Non era poi così difficile capire cosa volesse dire la parola vita in un luogo in cui non avevano bisogno neanche dei vestiti, proprio come accadde in Oklahoma sul Red River o sullo Arkansas nel ’79.

Non parlavano molto: Giovanni, non si sentiva sicuro con le parole, non comunicava sentimenti verbali, così come Ester che era un tipo taciturno, remissiva e legata, come ad avere un peso oppressivo addosso, ma al fiume no; lì era olio, ingranaggi che giravano senza alcun intoppo: ridevano, giocavano, si amavano giù al Mella.

Se li tatuarono sul corpo quei flutti: più non riuscivano a spiegarsi, più coprivano la pelle con quel corso d’acqua. Giovanni mise la sorgente sul cuore e seguendo la aorta nel ramo ascendente, il fiume passava sulla spalla e ricopriva tutto il braccio fino al polso, come ad avere una manica calata fino alla mano. In quei vivaci mulinelli due pesci che si inseguivano, due pesci felici: lui ed Ester che risalivano la corrente fino al cuore. Anche lei aveva tatuata una sorgente dalla quale sgorgava cristallino quel liquido vitale che componeva il nome “Giovanni” in idiogrammi giapponesi alla base del collo: come a dire ” ti vedo, non ti vedo “, ” ti tatuo, non ti tatuo “, “io so cosa c’è scritto, ma gli altri non capiscono”, per gridare in silenzio il suo amore per lui e non dare spiegazioni. Per non dover verbalizzare quell’ inafferabile idea di amore che aveva intuito, che si era convinta di possedere.

Per dire anche io so amare, ma non sta a voi sapere chi. Non sta a voi capire come. Io ve lo dico, ne ho bisogno, ma non troppo forte. Meno per meno è il mio amore.

E così più si amavano meno parlavano, meno spiegavano a loro stessi il loro rapporto, per timore che questo complicasse le cose, per timore di dire cose sbagliate.

Poi successe che Ester rimase in cinta: era come se la matematica si fosse ripresa la sua rivincita contrapponendo al “meno per meno” il suo “più per più” che fa proprio in cinta, chiaro come l’acqua del Mella prima degli sversamenti al cromo.

Ester glielo scrisse: “Sono in cinta.” Senza aggiungere altro. Fu tutto quello che scrisse e quello fu il loro acceleratore esistenziale che non sbloccò la loro capacità comunicativa, ma fece partire il marchingegno sociale.

La madre di lei le disse: “Amore, noi ci siamo, sarà la volontà del Signore. Vi sposerete.”

E così fu; proprio come nel 79, solo che quella volta in Oklahoma andarono dal giudice a mettere le cose a posto. Altro Paese, altre abitudini. Stesse esigenze di apparire a posto. Qui in Val Trompia, il giorno del matrimonio non ci furono tanti invitati in chiesa, non c’erano fiori e nemmeno grandi sorrisi. Solo foto furtive perché ogni cosa avesse un senso apparente, condivisibile, perché anche Giovanni compisse la volontà di un Signore che non conosceva nemmeno. Come Ester del resto, ma così sembrava più facile.

Trovò lavoro Giovanni per il suo diciannovesimo compleanno andando a fare quello che sapeva fare da generazioni: 8, 10 ore giù al tornio a scavare nel metallo quello che non riusciva a scavare dentro di sé, via i trucioli nell’acciaio, senza intaccare quelli interiori.

Poi ci fu la crisi economica, quella che  morse a sangue la Valle, quella che non si conosceva se non nei racconti di guerra e tutto quello che sembrava meraviglioso era svanito, era un ricordo che lo tormentava come se il tornio gli aprisse la carne. L’incertezza del lavoro, l’incertezza dell’esistenza. L’incertezza della volontà del Signore. Ester sembrava averlo dimenticato, sembrava non avere ricordi di quando andavano al fiume e anche questo angosciava Giovanni. Lo distruggeva.

Aveva i pigmenti del tatuaggio sbiadito dai bagliori delle saldature che ogni giorno gli cuocevano la pelle: pareva un pigiama troppe volte lavato; la pozza in cui si tuffava con la sua piccola era in secca, ci si bagnava solamente i piedi e non aveva la forza di chiedersi se il fiume fosse un guado, una parentesi placida in cui rispecchiare le proprie illusioni o piuttosto un percorso dalla sorgente al mare. Era più persuaso che “una promessa non mantenuta fosse una bugia o qualcosa di peggio”. Eppure era proprio questo a riportarlo giù al Mella: solo e chiudendo gli occhi si ricordava di quando la pozza era piena, testimone di un sogno svanito, di una menzogna agghindata con l’abito della domenica.

Da una finestra giungeva in lontananza la loro canzone senza che lui sapesse quante volte quella stessa musica avesse tentato di metterli in guardia. Oh, baby, giù al fiume, correvamo giù al fiume..

Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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