🔻 Dentro la pandemia: nelle parole, i fatti 🔺DAL GRUPPO G9

Anche la Letteratura, e la Storia, sostengono la testimonianza di Renzo Rozzini: se ne accorge subito chi scorre le pagine del suo libro appena uscito (Un ospedale in trincea, Brescia, Scholé, 2020), che aveva visto qualche anticipazione in riflessioni pubblicate sul Giornale di Brescia la primavera scorsa, durante la prima ondata della pandemia di Covid-19

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Renzo Rozzini, foto autorizzata Rozzini

di Laura Giuffredi – Anche la Letteratura, e la Storia, sostengono la testimonianza di Renzo Rozzini: se ne accorge subito chi scorre le pagine del suo libro appena uscito (Un ospedale in trincea, Brescia, Scholé, 2020), che aveva visto qualche anticipazione in riflessioni pubblicate sul Giornale di Brescia la primavera scorsa, durante la prima ondata della pandemia di Covid-19.

L’intenzione che anima questa testimonianza è innanzitutto personale, ma diventa necessariamente di interesse collettivo: trovare la dignità di un senso per i fatti.

Perché questi fatti, e l’ospedale che li ha espressi, sono distanti da chi non li ha sperimentati e, chi non ha potuto vedere, non sa cosa è successo davvero: “è quella distanza di sguardo, di punto di vista e di capacità di provare pietà di cui parlava Carlo Ginzburg in Nove riflessioni sulla distanza – ora Dieci”.

In realtà fin dall’esordio, dedicato all’epidemia di colera del 1836 nella provincia di Lodi e Crema, si capisce che la pandemia nella quale oggi ci muoviamo, impauriti e arrabbiati, non è inedita, ha dei precedenti drammatici di fronte ai quali l’umanità ha balbettato e si è dibattuta con disperazione, prima di riprendere una parvenza di controllo.

Alla Poliambulanza di Brescia il dott. Rozzini, internista e geriatra,  ha dovuto convertirsi in fretta in “medico Covid”, in un’esperienza da recluso dentro l’ospedale, per contribuire in qualche modo a garantire il funzionamento della “baracca”.

Non è stato facile: “in tutti i casi comuni il medico è abituato a dover calcolare, anche brutalmente, se e cosa vale la pena di fare. Ma questa volta si va al di là dell’immaginabile: scelte come quella di Sophie [il personaggio del libro di William Styron, e del film di Alan J. Papula, n.d.r.] si ripetono quotidianamente”.

Un ospedale in trincea, Renzo Rozzini, copertina

In questa pandemia si è optato dunque per il principio di utilità, di massimizzazione del bene globale, che si traduce nei seguenti dettami etici:

  1. salvare il massimo numero di vite possibile
  2. salvare il maggior numero possibile di anni di vita.
  3. dare la precedenza a coloro che hanno alle spalle un ciclo di vita più breve.

Da queste premesse é evidente che mille sono, da subito, i dubbi, i problemi di etica medica che investono medici e operatori sanitari a tutti i livelli e, al di là della teoria, si percorre  spesso il confine tra disperazione e indifferenza, sulla via stretta entro la quale si vuole operare per il bene comune, cominciando dal disporsi ad imparare qualcosa.

Innanzitutto partendo dal chiedersi se quello che si è a lungo studiato e sperimentato sarà d’aiuto, poichè è giocoforza constatare che l’epidemia ha messo l’impotenza medica al cospetto della potenza sbaragliante della morte. L’autore sottolinea come molti pensino che la morte sia il fallimento della cura o la conseguenza delle mancate cure, ma non sempre è così: le malattie mortali esistono, il Covid-19 è una di queste. Mortale per il 50% degli anziani, per il 100% degli anziani con demenza. Alla Poliambulanza non è mancato nulla in termini di risorse, umane e materiali, eppure sono morte di Covid 339 persone.

I numeri sono spietati quanto precisi, ma Rozzini ripudia la retorica di quelli che mettono banalmente in stato d’accusa l’umanità e la sua organizzazione in favore di un’idea puerile di “Natura benigna”, che tale rimarrebbe se non la minasse l’incapacità o la cattiveria umana.

Non è sempre così, non in questo caso.

Infatti è proprio l’ “Umanità” che salva, oltre i protocolli: e questa è la più grande lezione.

Come nel caso di alcuni infermieri e un medico positivi al tampone, asintomatici, che chiedono di poter rimanere al lavoro in ambiente Covid, perché lì non potranno infettare nessuno e continueranno a rendersi utili.

Colpisce la descrizione dei sintomi più drammatici della malattia, come la “fame d’aria” e l’insonnia: i pazienti non dormono, non riescono a chiudere i loro occhi stralunati.

E poi moriranno in ospedale e i loro cari non li potranno più vedere… Dolorosissimo per i familiari, ma anche per i sanitari.

Anche qui la letteratura risulta illuminante: Quanto agli altri, presi dal lavoro giorno e notte, non leggevano i giornali né ascoltavano la radio. E se gli si annunciava un risultato, facevano finta di interessarvisi, ma lo accoglievano con quella distratta indifferenza che s’immagina propria ai combattenti delle grandi guerre, esauriti dalle fatiche, preoccupati soltanto di non mancare al dovere quotidiano, non sperando più l’azione decisiva né il giorno dell’armistizio (Camus, La peste).

E sull’umana pietà di preparare i morti, Rozzini racconta (riflettendo su Thomas Lynch, Confessioni di un becchino poeta) di come si sia amorevolmente  ricomposto un cadavere, per mostrarlo ai figli grazie ad un tablet.

Il peso psicologico di questo percorso lascerà cicatrici indelebili: si spiega che tra i medici si fanno strada depressione, senso di insufficienza e di colpa, persino ideazione suicidaria; sono “ferite morali”, definite in inglese “compassion fatigue”, altrimenti detta “costo della cura”.

E questo porta Rozzini a lasciarsi andare ad una nota giustamente polemica contro chi parla senza sapere: “non mi ero mai accorto di avere amici e conoscenti così poliedrici: ingegneri-infettivologi, ragionieri-virologi, carrozzieri-intensivisti, insegnanti-epidemiologi…”, in un bailamme di affermazioni che non ci ha abbandonato, vista la situazione nella quale ancora ci dibattiamo.

Ultima, ma non meno importante lezione non può che essere, dunque, la necessità di riaffermare che è necessario difendere il nostro sistema sanitario, che da più di quarant’anni garantisce a tutti un uguale accesso alle cure.

Ora, e Rozzini lo direbbe anche a margine di questa seconda ondata del contagio, abbiamo la necessità di coltivare l’immaginazione, per dedicarci il futuro: le vite salvate, le ha salvate l’organizzazione, che però non deve, come tecnologia e tecnicismo, sovrastare l’ispirazione ideale, umana dell’ospedale, fatta di misericordia, compassione, gratuità. Aspetti che i giovani medici possono salvaguardare meglio di quelli “navigati”, anche perché più creativi.

Ci piace e ci colpisce questa fiducia nei giovani sulla quale si conclude questo “diario di bordo”, scritto sicuramente con fatica, passione e lucida consapevolezza.

ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9

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