📕 Il Peocio | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/25

Scendendo dal ponte saltellava al trotto sui gradini di marmo bassi e lisci, trasportato dall'abbrivio della decade dei venti e dalla spensieratezza che quella città gli metteva addosso...

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Umberto Tanghetti, scrittore

IL PEOCIO – racconto di Umberto Tanghetti

Scendendo dal ponte saltellava al trotto sui gradini di marmo bassi e lisci, trasportato dall’abbrivio della decade dei venti e dalla spensieratezza che quella città gli metteva addosso.

Stava andando dal Peocio, l’epiteto di un uomo che dava il nome a un bugigattolo di dieci metri quadri caotici, circondati da scaffali  che sostenevano una schiera di bottiglie molto alcoliche.

Dal Peocio, Campo San Giacomo di Rialto, non si poteva entrare: ti appoggiavi ad un mensolone dall’esterno, sotto i portici ed ordinavi il tuo cicchetto: bastava dire un numero, quello dei componenti del tuo gruppo e al resto ci pensava lui.

“Va bén! Spèta fora!” ti rispondeva, giusto per ostentare il suo potere, ché tanto dentro non c’era posto per sostare, ma lui te lo diceva per il gusto di menar la danza.

Il Peocio era una chimera mitologica, formata da parole truci, dal tasso alcolico elevato e da un midollo veneziano: capendo lui, capivi la città.

L’ingenuità da forestiero, un’apparente coraggio che altro non era che inconsapevolezza, spingeva l’avventore, sulle prime, ad abbozzare richiesta di delucidazioni sul contenuto dei suoi intrugli.

Il Peocio ti guardava con aria irritata e secco, truce veneziano, ti rispondeva facendoti intuire di non domandare altro: “Sboràe de vacche!”

Quella sera Giovanni era in anticipo e si appoggiò defilato al bancone in attesa di Riccardo, un veneziano gran signore.

Fu in quel momento che arrivò un Tale distrutto dalla vita, in cerca di alcolica consolazione e gli si appoggiò vicino, quasi a toccarlo.

Il Peocio ne incontrò lo sguardo e il Tale disse con netto accento lagunare:

“Due! Uno par mi e uno par el mio amico!” indicado Giovanni che abbozzò un sorriso di sorpresa senza potersi sottrarre.

“Che sboro, ta morti cani! Ti ga de ciavarle ben! Se no, le te scampa! Ti ga da esser generoso, ricórdate!”

Da lì in avanti fu tutta discesa, vecchi amici di un minuto a parlar  di fémene e ad estrapolare teorie facendo da rimpallo ad un uomo distrutto dalla sua vita amorosa.

“É tornata in Giappone,me mojère!” – ripeteva Nicola (così si chiamava, si erano presentati).

Giovanni cercava di stare dentro la conversazione ribattendo di rimando, senza dare troppa corda:

“Ora, sarà scontato, ma con tutte le tose de Venesia, giusto una giapponese?!? Avrà avuto nostalgia della sua mamma..”

“Era bellissima, era più veneziana de mi ( difficile da credere), dovevo ciavarla mejo!”ripeteva ossessivo Nicola.

“Ma dai! Avrà preferito il filone di Marco Polo, quelli sempre in viaggio e mai contenti e sarà voluta tornare in Oriente! Ne arriverà un’altra!” lo dissuadeva Giovanni.

Nicola fece una risata fragorosa: “Si, si..Proprio il filone..Ta morti cani! Ti xe foresto, ma no ti xe casso!”

L’intruglio del Peocio era buono, a dispetto della casualità apparente con cui l’oste trafficava e lubrificava l’eloquio di entrambi.

Finirono per parlare di Venezia.

Nicola ne parlava innamorato, con orgoglio, ma disincantato, come dispiaciuto per un destino incerto, una sorta di condanna ad esser la più bella e la più desiderata tanto da attirare milioni di turisti, di Lanzichenecchi (come disse di preciso) che da unica risorsa, ne consumavano l’essenza.

Passava in quel momento un Tale che Nicola salutò: era un gondoliere che aveva ormeggiato la sua gondola da qualche parte dietro al Mercà e lì dentro aveva deposto anche la sua maschera, quella che indossava la mattina all’apertura del sipario.

Tutto il giorno a raccontare storie a turisti sprovveduti ed annoiati: ogni calle aveva una casa del Goldoni ad uso della trama ed in ogni angolo avea pisciato Casanova.

Roba buona per i mangia patatine dai quali non poter prescindere, ma che non capivano Venezia né tantomeno la sua grandezza che parte dal basso, dai pali di rinforzo conficcati nelle fondamenta.

Questo raccontava e ad un certo punto Nicola chiese a Giovanni:

” Lo sai qual è il mio piatto preferito? Quello che più mi rappresenta?

Giovanni non sapeva che rispondere e Nicola continuò:

” Sono le Moeche e non le ho mai mangiate!”

Giovanni non capiva.

“Ma allora come fa ad essere il tuo preferito?” ribatté perplesso.

“Perché le moeche  non hanno guscio e vivono e muoiono per quello che sono. Quando sarò capace di vivere senza maschera, senza guscio, quando sarò come quella mamma col suo bimbo, potrò mangiare le moeche” disse Nicola guardando d’infilata verso il Ponte una giovane con prole al seguito.

Da lontano, infatti, nel Campo era sbucata  una mamma che gridava al suo figliolo in vena di bighellonare:

“Mòvete! Xe tardi, ta me pari un’anfora coi bràssi sui fianchi!

Era sera e quelli che avean ciancicato Venezia durante la giornata eran già fuggiti via;

si cominciava a respirare: eran dei veneziani le ciacole che giungevano all’orecchio e quella cadenza era in sincrono con l’ambientazione.

Dal bar lì accanto partì sorda ed ovattata una canzone di Bob Marley e questo capita, talvolta, quando si allineano le costellazioni e tutto gira alla perfezione.

“Tantantantarantantantanta

Tantantantarantantantanta

Could you be loved?”

L’anima di Venezia emergeva dai “ta morti cani” detti a mezza bocca sotto la maschera, quando la marea umana ed informe ti consuma, quando ti usa e poi se ne va succhiandoti l’essenza.

Emergeva da quei faggi conficcati nella melma e si ricondensava nella nebbia di novembre sopra il Canal Grande, dove scompariva da lontano il vaporetto.

Ondeggiava la laguna percuotendo le paline di approdo, quasi fossero carezze di una madre.

Di là dal Canal Grande il tintinnio di chicchere di porcellana e di cristalli coi Bellini e al Lido, oltre la Giudecca, il tappeto rosso per lussuose scarpe opportuniste che bevevano champagne.

Di qua i Peoci, le Moeche, le “sborae de vacche” e i “ta morti cani”, la Venezia senza maschera, quella che non recita la parte di nessuno.

Era presto per imborghesirsi:

i bagliori della ribalta Giovanni li lasciava a quelli che si cibavano di superficie.

“Io vado qui, sotto Rialto ad osservare dove si conficcan i pali che sorreggono la Storia.”Pensava.

Così immerso in quelle considerazioni aspettava Riccardo parlando con Nicola;

perfezione di una sera giù a Rialto: suonava Bob Marley e chiedeva a Venezia se poteva essere amata, chiedeva a Venezia  di dire qualcosa, di non farsi cambiare, di sopravvivere..

Potresti essere, potresti essere amato?

Could you be, could you be loved?

Non lasciarti cambiare, oh!

Don’t let them change ya, oh!

Venezia parlava e danzava quella sera ed era una meraviglia.

Un gabbiano puntava verso Malamocco e dall’alto osservava senza alcun coinvolgimento un ragazzo che accennava un ballo reggae lì a Rialto.

Suonava Bob e ondeggiava a braccia aperte nella nebbia, anche la laguna ancheggiava e sbatteva delicatamente contro tutti gli isolotti.

Venezia dall’alto ha la forma di un pesce che quella sera nuotava reggae e lui era lì in punta di piedi su quella pancia, patrimonio di umanità.

Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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