📕 Wana Mus (parte seconda) | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/29

Il giovane era autonomo, ma amava stare con quell'uomo che l'aveva accolto e amava aiutarlo come meccanico itinerante o come procacciator di ricambi...

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Umberto Tanghetti, scrittore

WANA MUS (PARTE SECONDA) – racconto di Umberto Tanghetti

Il giovane era autonomo, ma amava stare con quell’uomo che l’aveva accolto e amava aiutarlo come meccanico itinerante o come procacciator di ricambi.

Era bravo.

Era sveglio.

Frequentava anche Giovanni e la cugina del Vecchio: pareva una famiglia allargata.

Talvolta lungo la litoranea costruita dagli italiani ormai molti decenni orsono, si fermavano a mangiare carne arrostita cucinata al momento da uno dei tanti grigliatori di strada.

L’immagine della filiera che  finiva loro nel piatto aveva sempre incuriosito Mohammed: c’era il recinto con mezza dozzina di agnelli e di capre a brucare, un paio di capi a perdere sangue appesi al di sopra dei vivi e le parti già lavorate a sfrigolar sulla griglia lì accanto, diffondendo fumo bianco e profumo di fame.

Ci si sedeva su tavoli di fortuna e l’oste portava la carne senza neanche prendere ordinazioni: solo quella era la pietanza servita ed era per quello che lì ci si recava.

“Secondo te Vecchio, si rendono conto gli agnelli di cosa li aspetta?” disse Mohammed osservando quel climax di carne che dalla folta pelliccia d’agnello brucante finiva nel piatto a guisa glabra e bruciante.

Il vecchio non sapeva che dire, non si riteneva saggio, agiva d’istinto, con grande padronanza della propria esistenza: riusciva ad intuire la propria collocazione nello spazio e nel tempo, ma capire quella degli animali gli risultava difficile.

“Secondo me non si rendono conto di nulla, son lì senza sapere da che parte sono girati e si staranno chiedendo da dove arriva quella puzza di bruciato che noi, invece, chiamiamo profumo. Ecco, diciamo che tu devi essere un po’ più consapevole di quello” disse indicando un agnello sdraiato a triturare mangime, mentre il sangue dell’animale sgozzato che aveva sopra la testa, lo colpiva di striscio..

Il giovane sorrise agguantando il cosciotto e si ripetè stretto tra i denti:” Già, più consapevole..”

 

Quando il Vecchio ritenne Mohammed pronto ad affrontare il viaggio che aveva in mente, gli buttò lì durante la cena, tra un boccone di cous cous di verdure al coriandolo e l’altro:

” Figliolo preparati, oramai sai guidare con sicurezza nel traffico: dobbiamo partire per  Kufra, da dove mi hanno contattato per avere ricambi. Ho sempre temporeggiato, ma adesso è il momento, si parte.

Nei prossimi giorni caricheremo l’autocarro e partiremo verso est sulla litoranea per poi andare a sud e  tornare qui a casa tagliando in mezzo al Sahara.

Vedrai quello che per me è il mare vero, il gran mare di sabbia, quello che una volta visto puoi anche morire.”

Era la seconda volta che lo chiamava figliolo.

 

 

Il Vecchio aveva una visione contraria a quella degli altri: il traffico caotico e brulicante della costa per lui era l’infrangersi di onde vitali provenienti da sud, dal profondo mare di silice che dominava il panorama infinito.

Gli altri chiamavano mare la massa di acqua mediterranea che cozzava contro la costa, trasformandosi in case polverose e poi solo in polvere e poi nuovamente in sabbia a formare il Sahara: per lui era proprio il contrario, il mare partiva da sud, era solido e poi si liquefaceva nel golfo di Sirte, trasformandosi in qualcosa che lo interessava di meno, un ambiente acquoso in cui non era a suo agio, in cui non poter sopravvivere.

Il Vecchio preparò la bisaccia con lo stretto necessario secondo un’ antica esperienza sublimata in saggezza: farina, sale, datteri, the e l’immancabile tabacco che il ragazzo mal sopportava.

Il mezzo era un vecchio autocarro Toyota che Youssef e Giovanni avevano modificato nel corso del tempo in modo sempre più ricercato.

Il cassone era zincato e aveva occhielli in punti strategici per tirare la tenda la notte e fermarsi a dormire sollevati da terra.

Sembrava un vascello pirata pronto a salpare alla ricerca di veritiere esperienze di vita: il sedile posteriore era stato completamente rimosso fino a rendere nudo l’abitacolo in quella porzione di scocca.

La cambusa era ricavata in un doppiofondo con accesso dal lato, aprendo la portiera posteriore o da sopra, quando il fuoristrada non era carico.

Il doppiofondo serviva a ricavare uno spazio regolare su cui caricare la merce ed anche qui, una lunga serie di occhielli permetteva di preservarne l’ integrità dalle asperità del terreno.

Una piccola bandiera sventolava, poi, legata all’antenna radio sul lato anteriore sinistro: ai più distratti pareva semplicemente bandiera Touareg da cui il vecchio da sempre discendenza vantava, ma, in realtà, si trattava dello stemma di Brescia stilizzato in miniatura ed una leonessa tra i pirati ci stava benissimo a sventolare fiera in nome dell’amicizia con Giovanni e con i Touareg.

Partirono carichi di materiale elettrico, ricambi di auto, acqua potabile e tre taniche supplementari, per contenere il gasolio che serviva dove i distributori non c’erano.

Il traffico della costa era anarchico e anarchicamente bisognava guidare per annullarne l’effetto e scorrere con incoscienza piacevole.

Il Vecchio non amava quel tratto del viaggio già molte volte percorso: lo gestiva, ci viveva da anni, ci era nato, ma non comprendeva il senso di quel caos.

Raccontava a Mohammed che il moto umano che dalla Tripolitania trovavi uguale a se stesso anche in Cirenaica lungo la statale a doppia corsia, non era altro che la marea di energia proveniente da sud che si infrange sugli scogli del nord, prima di entrare nell’acqua del Mediterraneo: era il fine corsa, però, non l’inizio come gli altri pensavano e quel viaggio era per lui come un ritorno alle origini.

Mohammed guidava come un pazzo, sembrava non vedere gli ostacoli e poi scartava all’ultimo istante per dimostrare al Vecchio quanto fosse diventato padrone del mezzo.

Youssef non se ne preoccupava, era divertito da quel ragazzo che profondamente ammirava per la sua capacità di destreggiarsi nella vita proprio come nel traffico: lo vedeva sicuro, mai azzardato come chi non ha controllo, solo esuberante come un giovane che insegue il difetto di vita che la sorte gli aveva concesso.

Era proprio un “giovane ad inseguire” e aveva tutte le carte per andar fino in fondo.

Superarono Sirte e tutti i paesini uguali a se stessi percorrendo la litoranea con lo spartitraffico basso e diroccato da cui ogni tanto sbucava qualche oleandro più forte dell’approssimativa architettura costiera.

Anche le palme sferzate dal vento si sforzavano di abbellire il lato del mare, ma la deriva del tempo modellava l’urbano decoro:

polvere ai lati della strada e sterpaglie a conquistare l’ ormai troppo vecchio asfalto del progetto  italiano che aveva decenni.

Le auto procedevano  a casaccio, superando da destra o da sinistra a seconda della convenienza istantanea e c’erano muli a trainare carretti che quando arrivava la sera manco vedevi.

Così non potevi distrarti ed era forse quello il modo per rimanere svegli.

All’altezza di Brega il Vecchio sentenziò:

“Dopo Gheddafi, gira verso sud!”

La gigantografia del leader libico cadenzava gli spazi, affinché la propaganda si nutrisse di se stessa: ogni città ne aveva una e superato quel faccione sorridente, Mohammed chiese al Vecchio dove fosse la strada da seguire.

“Strade? Dove andiamo noi, Mohammed, non ci servono strade: si mettono le ruote sulla sabbia da qui in avanti.”

Il ragazzo era emozionato, aveva guidato fuori dall’asfalto qualche volta vicino alla sua cittadina, dove di certo la sabbia non mancava, ma solo per gioco, non certo per fare chilometri a frotte.

“Prima di procedere oltre, però, fermati figliolo che dobbiamo sgonfiare le gomme” gli disse Youssef.

Era la terza volta  che lo chiamava figliolo e Mohammed non ci fece troppo caso, ma il suo retrocervello cominciò a registrare quell’immagine subliminale che metteva un umore profondamente sereno, inspiegabilmente gioioso, come ad essere a casa, perché l’ambiente domestico non lo fanno le cose, ma le persone.

Il ragazzo era un poco stupito:

“Perché sgonfiamo le gomme Vecchio?” disse curioso.

“Perché qui nel deserto non valgono le regole certe, quelle cui sei abituato. Qui è tutto al contrario, senza le incrostazioni che distraggon la mente.

Qui sulla sabbia si sgonfian le ruote per aumentare l’impronta e galleggiare soavi, procedendo decisi.

Qui sulla sabbia si accelera andando in discesa, non si toccano mai i freni in quel frangente, se no si cappotta e allo stesso modo, si rilascia in salita prima di arrivare in cima, sfruttando l’inerzia per scavallare la duna senza staccare le ruote da terra.

Da qui in avanti la polvere diventa sabbia e più andremo a sud più l’auto e le gomme saranno pulite, sabbiate da chilometri di percorso a ritroso, verso le origini.

Qui ci si veste di lana per non sentire il caldo e si beve the bollente per non sentire la sete.”

Mentre parlava a quel modo il Vecchio aveva uno sguardo lucente, un misto di soddisfazione e pacata certezza che quel viaggio così condiviso sarebbe stato importante, anzi, di più, risolutivo.

” Vedrai che stasera sembrerà di volare! ” disse a Mohammed che non capì e si concentrò sulla guida.

Era pomeriggio tardo ed il Vecchio aggiunse che presto avrebbero fatto il campo per affrontare la notte nella tenda montata sul cassone posteriore.

Mohammed cominciava ad essere stanco di guidare, era già qualche ora che andavano rimanendo assai concentrati e se ne lamentò:

“Hey, Vecchio, quando ci fermiamo? Avrei voglia di sgranchirmi le gambe e magari per oggi di dire anche basta. Sta per fare buio, non voglio guidare se non vedo bene!”

“Mohammed fidati! Non ti ho detto che stasera si vola?” rispose Youssef, ma il ragazzo non capiva e si sentiva preso in giro.

In quel territorio la sommità delle dune arriva con grande lentezza: si procede chilometri su falsopiani che salgono in modo impercettibile e quando le leggi reologiche dominate dai venti lo decidono, ci si ritrova in cima e si scavalla coprendo in spazi ristretti un gran dislivello, ai limiti del cappottamento.

Non eran come le dune algerine, molto più alte e decise su entrambi i versanti o come l’infernale catino tunisino, dove si susseguono basse e frastagliate creste di sabbia che impongono ritmi assai lenti alla guida.

Nel deserto libico si viaggia spediti prestando attenzione a passare sulla cresta per scendere rapidi e poi risalire chilometri.

Fu in uno di questi passaggi che Mohammed rimase senza parole come quando il Vecchio gli raccontò di Sabratha: scollinarono e apparve davanti a loro giù in basso, in lontananza, un immenso aereo russo, un Antonov arrivato dal nulla chissà in quale tempo e lì abbandonato.

La carlinga era coricata su un lato, con la parte sinistra dell’ala che faceva da perno appoggiata sulla sabbia e la parte di destra ben alta nell’aria: sembrava un aereo in virata, ma a terra.

Sembrava la carcassa di un vecchio mammuth alla quale avevano tolto tutto ciò che si poteva recuperare: cavi, viti, parti di lamiera, sedili. Per lunghi tratti rimase solo lo scheletro, ma entrandoci, si aveva ancora l’impressione di volare, proprio come aveva promesso quel vecchio così strampalato.

Mohammed rideva e Youssef gli chiese il perché.

“Quando penso che tu mi stia prendendo in giro, dici il vero e rimango così, senza parole!”

Lo abbracciò e anche il Vecchio poteva dirsi felice.

Parcheggiarono l’auto sotto l’ala rialzata e accesero il fuoco.

Il vecchio tirò fuori la propria bisaccia e una ciotola: iniziò a mescolare farina, acqua e sale e quando la pagnotta fu pronta la fece riposare qualche minuto, giusto il tempo di allargare le braci. Poi la prese, la lavorò facendola roteare fino a schiacciarla come fosse una sorta di pizza e la lanciò sulle braci coprendola con la sabbia.

“Che fai Vecchio!!?? Ora si brucerà tutta!”

“Aspetta e prendi la carne in scatola.” rispose l’anziano.” Il tutto sta nell’azzeccare i tempi: se la lasci troppo si brucia, se la lasci poco non si stacca la sabbia..”

Così al momento opportuno ravanò con un bastone nella sabbia, prese la focaccia e diede un colpo secco contro il proprio ginocchio: tutto il pietrisco cadde a terra, liberando il profumo di pane più buono del mondo.

Lo mangiarono accompagnando la carne in scatola e poi prepararono il the alla menta bollente che bevvero guardando le stelle sdraiati dentro al cassone dell’auto.

Era tutto perfetto, entrambi erano in pace appagati dal niente in cui si trovavano e andarono a dormire coprendosi a più strati per contrastare il freddo pungente della notte sahariana.

“Buonanotte Mohammed, riposiamo che domani faremo la doccia e poi arriveremo a Kufra.”

Il ragazzo sorrise pensando che quella della doccia fosse una sparata canzonatoria riferita ad un certo afrore ascellare che avrebbe meritato una bella strigliata: sicuramente era una battuta, visto che il deserto non è famoso per l’acqua.

“Notte, Vecchio, a domani!”

 

Albeggiava, sul parabrezza dell’auto la condensa notturna si era ghiacciata e i primi raggi di sole ne scioglievano tutto il contorno: anche questo era strano a pensarci; faceva parte delle regole scritte al contrario che governavano quel deserto ricco di contenuti; chi l’avrebbe mai detto di vedere del ghiaccio nel Sahara profondo?

Mohammed pensava queste cose mentre il Vecchio era già attivo: stava mangiando parte della pagnotta della sera prima, accompagnandola ai datteri ed al the; il ragazzo iniziò ad imitarlo senza proferire parola, col ritardo d’azione tipico dei giovani che al mattino muovono i primi passi.

Raccolsero tutto e partirono salutando l’aereo in quella virata infinita a cui era condannato e continuarono verso sud.

L’inverno non fa troppo caldo, nemmeno in quel posto così desolato: viaggiavano col finestrino mezzo abbassato andando a velocità costante e ormai l’autista si era fatto una certa esperienza dosando l’acceleratore in presenza della sommità della duna, arrivando d’inerzia a mettere di là l’anteriore e riaccelerando per dominare la discesa, fino al successivo passaggio.

Sembrava un metronomo regolare a dettare il ritmo: velocità costante, rilascio dell’acceleratore, scollinamento, nuova ripresa di velocità e così verso l’apparente infinito.

Non sempre quei due chiacchieravano, c’erano lunghi silenzi ricchi di contenuti, cosa che in città capitava di rado: qualcuno che ti chieda del tempo o di qualche amenità futile capita sempre, sprecando occasione di ascoltare se stessi.

Era per questo che quel viaggio era sia fisico che mentale, un ritorno a ritroso, proprio come il Vecchio aveva tentato di instillare nel giovane che, evidentemente, aveva colto appieno il senso di tutto ciò che stava vivendo.

 

“Non so tu – cominciò il Vecchio – ma io ho bisogno di farmi una doccia!”

“Magari! – rispose Mohammed, ma chissà quando arriveremo a Kufra..”

“A Kufra arriveremo in serata, ma io la faccio adesso la doccia!” e gli indicò in lontananza uno strano accrocchio metallico che non si riusciva a distinguere.

Pareva uno di quegli impianti di estrazione petrolifera, ma non zampillava puzzolente impiastro di pece, bensì acqua e calda per giunta!

Vi arrivarono sotto ed in una pozza invitante scrosciava il grosso getto d’acqua in ricaduta.

“Vedi Mohammed, questo è uno dei tanti progetti lasciati incompiuti dalla propaganda che fa cose solo per farsi vedere, ma ottenuto lo scopo di avere consenso, le abbandona, sperperando risorse. È così dalla notte dei tempi.

Questo era il progetto che prevedeva di portare l’acqua fossile che sta sotto al Sahara, fin verso la costa e dissetare così tutta la popolazione.

Quando ti dico che questo è il mare che io amo, non dico bugie: è mare davvero, ma al contrario con la sabbia sopra e l’acqua sotto.”

Mohammed rideva.

“Scusa se rido, Vecchio, ma tu mi hai fregato oggi. Fare una doccia e calda per giunta nel deserto! Ma come è possibile?!?”

“È possibile! – disse il Vecchio avvicinandosi e gli diede una spinta facendolo volare nell’acqua.

Ora ridevano tutti e due e si fecero la doccia più bella e assurda del mondo.

 

A sera arrivarono a Kufra, crocevia delle piste provenienti dall’Egitto, dal Sudan e dal Chad. Tutto era polvere e l’unico meccanico presente aveva bisogno di pezzi per riavviare due OM Tigrotto che non rombavano più e di altra merce che Youssef e Mohammed scaricarono nella precaria officina.

La gente del posto era molto aperta e cordiale e il Vecchio era una sorta di personaggio famoso che non poteva deludere i propri tifosi più sfegatati: aveva portato penne e quaderni per i bimbi del luogo che andavano ad un’improvvisata scuola senza avere nulla in mano, salvo le volte che arrivava Youssef ( quindi assai di rado).

Parcheggiarono la macchina nel palmeto e montarono la tenda:

“Ragazzo, preparati che domani si va sulla luna!” sbadigliò il vecchio strascicando le parole.

“Se lo dici tu” rispose perplesso il giovanotto, rimanendo nel limbo di chi non capisce se è scherzo o realtà quel che dice l’interlocutore.

Partirono presto salutando i bambini che tutti in cerchio si erano radunati per coprire i due viaggiatori del loro entusiasmo infantile.

Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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