📕 Giornata della memoria | La mosca | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/32

Fu colto di sorpresa e così diede una risposta di cui si pentì subito. "Scelga un essere vivente di qualsivoglia specie ed un anno del passato! " gli chiese un signore buffo e stralunato che era sbucato all'improvviso nel corridoio del treno

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Umberto Tanghetti, scrittore

LA MOSCA – racconto di Umberto Tanghetti

Fu colto di sorpresa e così diede una risposta di cui si pentì subito.

“Scelga un essere vivente di qualsivoglia specie ed un anno del passato! ” gli chiese un signore buffo e stralunato che era sbucato all’improvviso nel corridoio del treno.

Solo che lui era in fase catatonica, in

quell’ interregno mentale che ti porta dalla lettura all’osservazione passiva del finestrino, con i pali

elettrificati che ti sfrecciano ad un metro dalla faccia:” Uno, due, tre..” in sostituzione delle pecore a conciliare il sonno nel posto più scomodo in cui riusciva a dormire davvero.

Dunque gli fece quella domanda con atteggiamento quasi da giullare, gesticolando con le mani come fanno certi maghi.

Avrebbe potuto rispondere:

” Pavone, 1400! ” e avrebbe fatto centro.

Putti a lisciargli le piume della preziosa coda, pavoneggiate futili e gratuite, giardini all’italiana in cui fare mostra della propria inclinazione alle chiacchiere fini a se stesse e come unica occupazione, soggetto per arazzi di corte..

Oppure avrebbe potuto lasciarsi andare ad un: “Cavallo arabo 1200! ”  e sarebbero state cavalcate sicure nel Regno di Federico secondo..

 

Invece disse, dopo aver dubitato che quel signore parlasse con lui: ” Mosca, 1944! ” facendo riferimento all’insetto che aveva appena tentato di spiaccicare sul tavolino a scomparsa alla sua destra e all’anno di nascita di sua madre.

Lo disse con tono deciso per togliersi di dosso quel seccatore sfrontato, quel pagliaccio.

Ché poi si chiedeva cosa spingesse certe figure ad avere la faccia come il tanto vituperato approdo delle fregature che la vita riserva.

Il tipo sparì all’improvviso e lui si ritrovò solo, con una prospettiva diversa: vedeva tutto dall’alto come ad essere nell’angolo in cui, nel vagone, stava la cappelliera alla fine del corridoio.

Anche il treno era cambiato: intanto era fermo senza più sfrecciare sulle rotaie e non aveva più sedili comodamente imbottiti, ma un unico ambiente e tavolacce di legno a fare da pavimento, un mestolo appeso ad un secchio ricolmo d’acqua sistemato per terra nella parte anteriore di quell’unico ambiente e due porte scorrevoli per bestiame, una per ogni lato della carrozza.

Filtravano, da feritoie poste in alto lungo la parete del convoglio, raggi di sole che evidenziavano il pulviscolo volteggiante nell’aria in attesa che qualcosa cambiasse, proprio come presto avvenne: si aprì d’improvviso l’ingresso che dava sulla banchina e il ritmo di danza della polver per l’aria aumentò, passando da un comodo valzer ad un militaresco heavy metal.

Anche i rumori aumentarono: erano secchi e bruschi come dettati da chi non aveva la pazienza di attendere.

In quattro e quattr’ otto si riempì quel vagone di gente spaesata che non si aspettava di finire in un treno che non avesse sedili e col quale avevano visto, in passato , trasportare soltanto animali..

Quella gente era vestita di tutto punto, come se fosse stato detto loro di prepararsi senza portare nulla di più di quello che avevano addosso e dunque avevano optato, in maggior parte, per l’abito della domenica, non sapendo con chi o con cosa avrebbero avuto l’incontro.

Lui, invece, era mosca e guardava le cose con gli occhi a più facce di quell’insetto, senza riuscire a mettere insieme i pezzi del caleidoscopio: gli mancava la visione d’insieme, ma non se ne accorgeva, non avendo più alcuna pretesa che andasse oltre la meccanica sopravvivenza.

Ragionava o meglio viveva da mosca perché ragionare è verbo complesso che non si addice a chi vive d’ istinto, di bisogni primari; era, inizialmente, straziato da un conflitto interiore, come se a quell’insetto a sei zampe si contrapponesse uno sbiadito ricordo di quando era bipede.

Così, ogni tanto, gli arrivavano sprazzi fugaci ed impalpabili della sua vita d’un tempo.

Della sua Coscienza.

Della sua capacità di decidere.

Della sua capacità di discriminare tra  giusto o sbagliato.

Poi, più tempo passava in quel treno che, intanto, si era messo a viaggiare e più si dimenticava della sua duplice essenza di uomo con corpo di mosca: tutto fruiva facile e senza domande.

 

Il suo nuovo istinto lo spinse ad andar verso il secchio che, svuotato dell’acqua man mano bevuta da quella moltitudine di persone smarrite, fu usato per contenere i loro liquami.

Che orrore, costretti da bestie a defecare l’un l’altro accostati, avevan trovato rimedio per minimizzare l’impatto di quell’essere condotti come animali.

Il secchio dapprima ricolmo di limpida acqua, fresca, rigenerante come lo è la capacità di discernere, via via si svuotò diviso col mestolo in razionate porzioni in cui venne distribuita tra tutti.

Erano ancora umani e pensavano che presto sarebbero arrivati a destinazione, così non si preoccuparono d’altro.

Il tempo passava e  i più anziani cominciarono a perder controllo degli sfinteri e ad avere urgenza.

Così come i bimbi.

Si guardarono negli occhi e decisero, senza parlare, di occupare quel secchio a quel modo. Divenne latrina e con grande pudore gli altri giravano la testa dalla parte opposta in quella umiliazione così perpetrata a lor danno.

Si ostinavano ad essere umani, contrariamente a chi li obbligava a tale supplizio.

Intanto  la mosca vedeva crescere dentro di sé l’irrefrenabile istinto di vicinanza a quegli scarti e cominciò a ronzare lì intorno, dapprima timidamente e poi in spasmodica trance agonistica.

Era come una droga.

Era come la colla di cui si fanno i bambini di strada, roba da restare intontiti e appagati.

Roba da dimenticar tutto il resto.

E così le prime curiose planate, dapprima discrete e titubanti, si tramutarono presto in materiali picchiate a volo radente e poi, sempre più giù a sguazzare nel torbido, a rimestare dove coscienza e capacità di pensiero non sono di casa.

Liquami nei quali vagare: quella divenne la sua abitazione e aspettava degli umani l’umiliante obolo rilasciato furtivo.

Aveva , la mosca, lo sguardo del tossico, avido e intollerante alle attese: ” Presto – pensava – ancora! Ancora ne voglio, non posso aspettare! Avanti sganciate che qui non si scherza!”

 

Finché il treno arrivò alla sua destinazione, là dove l’essere umano non trova conforto; là dove, è già tanto, se si rimane assennati.

Là dove, difficile credere, la latrina della coscienza abbonda, dove non ci sono pensieri complessi, ma solo organizzazione brutale.

Là dove si diventa mosche davvero.

Là dove le vittime, lottando con loro stessi più che con l’aguzzino, cercano di restare umani, di sopravvivere.

Così il treno era fermo e la porta si aprì.

Cagnacci di pelo e in militare sembianza aspettavano il carico di bolo vivente da triturare, da annientare prima dentro e poi fuori.

 

Sul treno un bimbo piangeva, aveva fame e voleva la mamma che latte più non aveva e così un soldato dalla banchina, per fare capire a quegli altri che erano arrivati, lo strappò dal suo grembo per una caviglia arpionandolo e lo scaraventò per l’aria..

 

La mosca ebbe un fremito, un sussulto di orgoglio e si ricordò di essere uomo.

Si svegliò sudato ed in preda all’orrore, era arrivato a Milano alla stazione centrale e quel sogno lo rese assai inquieto.

Scese dal treno, ma non si diresse al lavoro.

Aveva una cosa da fare, da troppo tempo rimandata al domani.

Andò al binario ventuno,  lì sotto, da dove quei treni di morte partivano: non c’era nessuno e in quel vuoto in milioni ci stanno aspettando.

Così come in tutti luoghi in cui la barbarie la fa da padrone.

Si fece spazio in quel silenzio, solingo e prese al volo il bimbo scagliato per aria da quel soldato nel ’44.

 

Non cadde per terra.

Non era ferito.

Non aveva la gamba disarticolata dal lancio lontano.

Non una goccia di sangue segnava il suo viso.

Non aveva il piombo nemico incontrato quel corpo come tiro a segno umano, sfracellandone il cranio.

Non gridava straziata la madre.

Non erano tutti sconvolti.

 

“Non preoccupatevi – disse – È anche mio questo bimbo che ride, che gioca, che vive la vita nel mio ricordo.

Promesso.

Vedrà il mondo che avrò la fortuna di vivere e gli darò quello che posso.

E così anche a voi, figli dell’ingiustizia e della barbarie.

Figli dei liquami raccolti in un secchio.

I liquami senza coscienza e capacità di pensiero, io sono qui per ricordarmi di voi.

Io sono ebreo, culattone, negro, migrante, bastardo, storpio, bambino, disagiato mentale.

Io sono sbagliato, violentato, umiliato, annichilito, trucidato, riempito vigliaccamente di botte, bruciato in un forno.

 

Io sono latrina, ma essere umano”.

 

Poi parlava in polacco a quel bimbo adorato.

Lui che a stento pronunciava un italiano corretto, diceva in lingua straniera a quell’essere:

“Amore, tesoro, la vita è meraviglia, tu sei meraviglia, tu sei stupor mundi!”.

Lukasz, annuiva, capiva, rideva felice.

Gli impugnava il nasone con la sua dolce manina, per non farlo scappare, per  trattenerlo.

 

Alle volte capita di ricordare episodi  vissuti da altri, di tenerne memoria.

 

Alle volte si crede di averli vissuti, di esserne l’incarnazione.

 

Lampante quanto questo è importante:

differenza tra mosca ed essere umano.

 

MEMORIA È SEMPRE

.174517.

Tramonto, foto generica da Pixabay

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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