📕 Maradona | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/33

Se non avesse avuto il navigatore satellitare a guidarlo passo passo, col cavolo che avrebbe imboccato l'uscita di Casoria...

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Umberto Tanghetti, scrittore

MARADONA – racconto di Umberto Tanghetti

Se non avesse avuto il navigatore satellitare a guidarlo passo passo, col cavolo che avrebbe imboccato l’uscita di Casoria.

A sentire quel nome gli si accendeva un allarme nell’ ippocampo che risvegliava ricordi fulminei della voce di nonna Pina, come fossero fuochi fatui della mente, nonna partenopea da generazioni, nonna non sua, ma della consorte:

“No lassat’ o sta, chillo è nu furastiero e Casoria!”.

Non aveva mai capito fino in fondo il significato di quell’espressione, ma da ignorante di quel significante si era creata, a rappresentare un forestiero di Casoria nella sua immaginazione, una figura losca che camminava furtiva radente ai muri in cerca della preda, ripetendo tra sé e sé come fosse un mantra :” Senz’ o fesso, o dritte un campa!”

E lui da fesso non si voleva proprio immolare.

 

In realtà il significato di quell’espressione era tutt’altra cosa, indicando un Tale che si atteggia come uno che arriva da chissà dove, ma alla fine è di Casoria, cioè di Napoli, come nonna Pina!

Tant’è, gli equivoci, talvolta, metton sale all’esistenza e si chiedeva, sospeso sulla tangenziale, nella graduatoria dei forestieri “nonnapineschi” dove potesse essere collocato uno che, dalla Valtrompia, forestiero lo era per davvero: via lattea o già si era passati ad un’altra galassia?

Così aveva sempre avuto un timore reverenziale per quel cartello:

“Casoria, lasciate ogni speranza voi che dalla tangenziale uscite!”, tirando dritto verso Napoli, senza avere mai avuto il coraggio di affrontare quel fantasma.

Quel giorno, però, era a secco di metano e si affidò al navigatore la cui voce aveva assunto proprio i toni di nonna Pina:

“Tra trecento metri, uscite a Casoria, ma facìte ampress’!

Facìte metano e ripartite subbeto, subbeto!!

Ca ci stanno e furastiere!!”

La traiettoria disegnata dal navigatore sulla mappa pareva un errore di calcolo, un ghirigori casuale ad accendere pixel apparentemente fuori controllo e invece l’andamento assurdo tra reali palazzoni alti e sgangherati rispecchiava quel dettato virtuale.

Brutto posto, senza timore di essere smentiti; brutto almeno lì, ai confini della tangenziale che pareva un’ anaconda sopraelevata dalla quale si dipanavano rivoli d’asfalto diretti verso i bassifondi e dalla quale si poteva  guardare dentro i palazzi senza il minimo pudore: mutande a far evaporare acqua in cambio di particolato.

Cemento a sostenere cemento alimentando la più alta densità abitativa d’Europa.

Pensava a quelli che, parlandogli di Napoli e dintorni, gli dicevano sempre:

” Ah, Napoli, che meraviglia, che vuoi sapere tu!

Tu non puoi capire!

Tu canusci sulamente a nebbia e a pulenta!

Nuie tenimme o sole…”

Ora che a Casoria ci era uscito, a questa sciorinata avrebbe risposto, con accento partenopeo marcato:

“Ma che state dicendo?!?

Ci siete usciti mai a Casoria dalla tangenziale?

E fosse chist o sole?!? Ma iatevenne ia!”

 

Il primo benzinaio che incontrò, non era quello giusto: la pompa del metano non c’era, ma il navigatore parlava chiaro: “La vostra destinazione si trova sulla destra!” e nonna Pina non parlava mai a vanvera.

Poche parole caustiche e senza possibilità di appello come quando, in visita a Breno, aveva detto a un camuno: “Vuie è inutile ca parlate pecché je nu’ ve capisco! Che parlate a ffa?”

Fine delle trasmissioni.

Doveva essere arrivato per forza.

Incontrò lo sguardo dell’addetto al rifornimento e quello gli disse: “Il metano è al cancello prima. Vada in retro!”

Rimase perplesso, pensando a quanto fosse fuori dal proprio immaginario entrare in un cancello per fare rifornimento, ma quel cancello c’era per davvero, poco  prima del benzinaio e pareva quello di un palazzo privato: ci entrò, ma portava ad una pompa di GPL.

Anche l’addetto di quella sezione gli disse che il metano era al cancello precedente e così a ritroso, di retro in retro, di cancello in cancello, di diaol porco in diaol porco, era arrivato a quello giusto, chiedendosi, da forestiero, il senso di quell’apparente approssimazione (si trattava di imparare a parlare un’altra lingua, altre convenzioni).

Scese dall’auto salutando il benzinaio:

“Buongiorno, ci si abbronza ad aspettare clienti qui!” seguendo il noto filone del sole..

“Che volete, fortuna! Di dove siete?” chiese.

 

“Di Brescia” pronunciò strascicato, inarcando la schiena all’indietro con le mani a reggere le reni.

 

“Uè state inguaiati lassù!” e giusto il tempo di ammiccare la palpebra, si era tirato sul viso una mascherina ffp2 a prova di polentone infetto, come a dire:” Mo’ chill’ co’ o culera siete vuie!”

 

“Inguaiati? A dir poco, ammo cuntato i muorte!

Non ha idea di quello che è successo a marzo..Chi non lo ha vissuto non capisce, deve sbatterci la faccia, pare..” gli disse improvvisando un italiano in cui cacciava maccheroniche parole in napoletano a sfiorare il ridicolo per colmare la distanza che tra mascherina, pandemia ed esser forestiero per davvero era quasi insostenibile.

Ma tra forestieri ( quell’ altro era di Casoria!) ci si capisce sempre.

Non era propenso alla diffidenza e quell’uomo sui settanta gli faceva simpatia:

“Pijateve nu bello cafè, dopo tanta strada è quello che ci vuole. Metano alla macchina e caffè per voi, così poi si riparte! Intanto vi pulisco i vetri..” propose l’anziano.

Era vero, ci voleva un caffè.

Chiuse la macchina lasciando la voce di nonna Pina a fare la guardia ed entrò in un bar assai dozzinale nell’insieme, ma con punti fissi lucenti, primo fra tutti la macchina per il caffè espresso con le tazzine bollenti coperte da uno straccio sopra la caldaia:

“Buongiorno! Un caffè grazie!”

“Arriva!” Rispose il barista e cominciò l’energica ,  ma leggiadra danza a preparare la bevanda più buona del mondo.

Guardando quel ragazzo che faceva sfiatare la caldaia, riempiva il filtro, calcava il caffè in modo deciso, ma non eccessivo, abbassava la leva e la rilasciava nuovamente facendola salire lemme lemme, pensava che non fossero il sole né  il mare a mancargli dove abitava lui: era quel caffè che mancava nel modo più assoluto.

” Concè nun’ è cosa per te! ‘O cafè nun’ o saie fa’! Magari la frittata di cipolle, siete la regina della frittata di cipolle, ma il caffè nun’ è cosa.. Solo qua lo sanno fare per davvero..”

Sopra al bancone, proprio a favore dell’ ingresso, era appesa la maglia di Maradona ripiegata in una teca a mettere in mostra il dieci bianco su sfondo azzurro e lì accanto, la foto della famosa punizione alla Juventus.

Traiettoria impossibile che c’entra l’obiettivo, come quella tangenziale che passa fantasiosa tra le case seguendo traiettorie che ti portano di strada in strada, in modo inaspettato, fino al mare del Golfo: uno spettacolo.

Uno schermo proiettava a ciclo continuo i goal e le magie di Diego, quasi ad essere una litania pagana, un rosario per acclamare il dio della gioia napoletana.

Iniziò a bere il caffè proprio mentre scorreva

un’ altra rete iconica, quella segnata all’Inghilterra con l’Argentina ai mondiali, scartando mezza squadra: assaporava, sorseggiava, degustava quella bevanda calda che ogni volta lo stupiva; ci avrebbe giurato anche prima di berlo che sarebbe stato una meraviglia, ma ogni volta che entrava in un nuovo bar partenopeo che non conosceva si diceva: “Magari qui non lo sanno fare!” e ogni volta usciva felice.

Lo sapevano fare sempre.

Anche Maradona quel goal all’Inghilterra lo segnava sempre, ma lo riguardava con la curiosità di confermare come sarebbe andata a finire: troppo bello per non gustarselo ogni volta, proprio come il caffè.

Il barista, nel frattempo, imprecava contro  un tale che in un’ intervista aveva affermato che se Diego non fosse andato a Napoli a giocare, si sarebbe “salvato” dalla perdizione che ne aveva consumato l’esistenza.

Era vero il contrario: Maradona non sarebbe diventato Maradona se non fosse andato a Napoli; sarebbe stato un grandissimo, ma non sarebbe mai diventato “nu dio”.

Sarebbe stato triste.

Beveva il caffè che era bello (a Napoli il caffè non solo  è buono, ma è anche bello..) come la punizione segnata alla Juventus e concretizzava la similitudine tra la città e il suo idolo: Maradona era la città fatta uomo e Napoli era quell’uomo diventato città in una sincronia irripetibile, scrigni di contraddizioni che solo a Napoli avrebbero potuto trovare corrispondenza.

Maradona personificava tutte le contraddizioni di Napoli, ne era il bigino in cui poter leggere tra le righe gli stessi tratti caratteriali: raggiungere le vette dell’eccellenza poggiando sulle proprie contraddizioni, puntando su fiammate di puro genio ad allontanare i demoni della precarietà su cui annaspano le fondamenta.

L’uno tirava la coca e giocava a pallone con la gioia e la maestria di un funambolo e Napoli si faceva a sua volta di Maradona, estasiata dalle sue giocate di cui non poteva più fare a meno.

Sarebbe stato difficile parlarne con qualcuno li al bancone del bar, non era il caso di essere frainteso dai forestieri di Casoria, ma pensava che in quell’ammasso di case  che ti accompagna fino alla città, fino ai quartieri del mare, ammasso che tutto tritura, ciancica e che tutto restituisce rimodellato, il profano diventava sacro ed il sacro profano da sempre.

 

Napoli è sospesa tra il Vesuvio e la grande caldera dei campi Flegrei e l’incertezza su cui si è stratificata nel corso della storia fa parte del vivere comune: la Cabala che dona la speranza, il fatalismo remissivo, la caparbietà nell’ andare avanti, la capacità di improvvisare per sfangare la giornata, esplosioni vulcaniche di ingegno a compensare le iatture di una condizione precaria.

Prospettive a breve termine.

Così Maradona era ” nu dio” ed il campo di calcio il suo presepe, il presepe che regalava

l’ illusione che tutto fosse perfetto, almeno lì.

Era il sangue di San Gennaro che si squagliava ogni domenica.

Era  la ciorta che ti metteva in mano la cinquina giusta, sollevandoti con gioia irrefrenabile dalla mediocrità; era il Deus ex machina che aggiustava il caos abitativo, un caos irrisolvibile dalla fatica dei singoli.

Gli sembrava di sentire Eduardo:

“Vi piace ‘o presepio?” come a chiedere prima del tempo: “Vi piace Maradona?”

“Ditemi che vi piace Maradona!”

Tragico ammettere che possa non piacere, quasi insostenibile, come fosse un affronto a tutta la città.

Eppure, ancora più tragico, aver bisogno di proiettare su di una rappresentazione la propria grandezza che poggia tutt’ oggi su contraddizioni mai sopite.

 

Il bradisismo flegreo innalzava dagli anfratti sotterranei delle solfatare chi stava in basso, reietto, dimenticato dal quotidiano incedere, abbacinandone la vista con lo splendore del Golfo oltre i palazzoni, illudendo tutti di poter vedere il mare più lontano, come in un paganesimo geologico assurto a santità salvifica, come se, collaborando col sangue di San Gennaro, permettesse di ottenere risultati sconosciuti alla possibilità umana.

Sacro e profano che si prendono per mano: consolatori, come il caffè, come la pizza, come i numeri estratti al lotto, come il segno della croce prima di entrare in campo, come una strizzatina scrotale al passare del carro funebre.

In questo contesto Maradona era il nuovo “Cciccibacco ‘n coppa ‘a votta” in carne ed ossa, un dio pagano che consola vite complicate, che regala gioie altrimenti sconosciute, che camuffa la schizofrenia di chi vive i picchi in alto ed in basso di una quotidianità difficile.

Un dio che regala gioia a chi conosce la fatica.

Un dio che illude.

Un dio da vedere e toccare per un popolo che così poteva credere in qualcosa che non fosse la disillusione che nulla cambia, che non fosse una sciarpa avvolta intorno agli occhi a rendere indecifrabile il reale.

 

Così guardava il presepe allestito su di un lato del bancone di quel bar, proprio lì accanto a lui e capiva che quella rappresentazione era una Napoli in cui la Natività era un pretesto per illudersi di essere migliori, per illudersi che tutto fosse a posto: era lo specchio di una vita immaginata, scollata dal reale, in cui anche Maradona era rappresentato, appoggiato alle botti del suo collega e compagno di merende Ciccibacco.

Echeggiavano nella sua testa, ancora e sempre più insistenti, le parole di Eduardo:

” Concè ti piace o presepe?”

come se tutti  dovessero vedere la grandiosità illusoria di un mondo, di una città, in cui tutto era al proprio posto, in cui ognuno aveva la sua gloria.

Eppure Maradona, nu dio nel presepe di pallone, nu dio nello Stadio, si riscopriva disperatamente uomo nella vita, quella stessa vita che i più non conoscevano, che i più immaginavano come meravigliosa.

Invece l’uomo era nudo e piccolo, come la città che si palesa nuda e piccola nelle miserie che la affossano sempre dopo ogni slancio, nella mediocrità dell’intellighenzia che si parla addosso e che si bea dell’eccellenza nascondendo tutto il resto dietro un: ” Voi forestieri non potete capire!”

 

 

Salutò il barista e il gentile benzinaio:

“Ci voleva proprio, grazie!”

Quello rispose con l’empatia del nonno buono:

“Grazie a voi, teniamo duro c’ a da passà a nuttata!”

Salì in macchina e ritornò sui suoi passi affidandosi alla voce di nonna Pina..

Uscì a Fuorigrotta dove la strada scende e sprofonda nel sottopasso dello Stadio fino a riemergere, costeggiando quell’arena, verso la stazione dei Campi Flegrei.

Era sera in quel quartiere e nella penombra illuminata dalle luci artificiali, rimbombavano suadenti, con ancor più suggestione, le previsioni della Sibilla Cumana che via via nei secoli si erano adeguate alla storia, tramutando illuminanti soffiate sui massimi sistemi, in indicazioni assai più spicce, segno di una crisi trasversale.

 

Sentiva insistente la voce di quella veggente che lì era di casa, voce che, rimbalzando di palazzo in palazzo, lo conduceva per mano come ad essere un navigatore delle sue intenzioni.

Diceva ovattata, sussurrando con irresistibile franchezza:

” Pizza a portafoglio..Pizza a portafoglio!”

Per rispettare il vaticinio si fermò alla pizzeria Bennato dove prese una pizza da passeggio ripiegata in quattro e appoggiato alla sua macchina, assaporava quella città così grande e cosi piccola allo stesso tempo, assaporava la miseria e la nobiltà di una tradizione millenaria.

 

Sorrideva, pensando alla traiettoria di quella punizione: pareva impossibile, ma la palla era entrata.

Tripudio di genti a dimenticare gli affanni, salsiccia e friarielli per tutti e dopo nu bello cafè..

Goduria allo stato puro.

 

Quella sera Diego fece il suo primo miracolo postumo: la giunta in plenario afflato, in fretta e furia accalorata e commossa, si riunì per cambiare nome al tempio, per cambiare solo il nome ad una sostanza sempre uguale a se stessa..

All’ unanimità, con repentino e sacrale incedere, non più Stadio San Paolo che venne disarcionato di nuovo da cavallo, dando ricorso al corso della storia, ma stadio Diego Armando Maradona, incoronando la divinità che ogni domenica scioglieva il sangue dei napoletani.

 

Sacro e profano, dove alla fine, il profano vince quasi sempre, quando gioca Maradona.

Tramonto, foto generica da Pixabay

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

LEGGI I RACCONTI DI UMBERTO TANGHETTI PUBBLICATI SU BSNEWS.IT A QUESTO LINK

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