📕 Persone dentro le pose del luogo comune | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/36

Fabio era un trentenne figlio di un imprenditore bresciano che produceva macchine utensili per lavorazioni metalliche. Aveva sempre avuto una vita agevole senza mai considerarlo, pensando che quella fosse condizione comune, la condizione di tutti

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Umberto Tanghetti, scrittore

PERSONE DENTRO LE POSE DEL LUOGO COMUNE – racconto di Umberto Tanghetti

Fabio era un trentenne figlio di un imprenditore bresciano che produceva macchine utensili per lavorazioni metalliche. Aveva sempre avuto una vita agevole senza mai considerarlo, pensando che quella fosse condizione comune, la condizione di tutti.

Fu il nonno a farsi da solo, iniziando col battere il ferro a mano, colpo su colpo, respirando vapori di saldatura e polvere ferrosa, schiacciandosi le dita col martello e dissimulando a suon di imprecazioni l’avvenuto accidente: niente orari, cominciare presto e finire tardi.

Poi il padre, di rilancio, meccanizzando i processi ed arrivando, persino, a portarsi in casa la produzione delle macchine per dare forma alla lamiera: doppia filiera, doppio guadagno e maggiore certezza che quello che sai fare solo tu, sempre meglio, non te lo toglie nessuno.

Audacia e visione, testardaggine e un po’ di incoscienza.

Fabio era, invece, figlio del privilegio, in quella terra di mezzo che non lo faceva essere un debosciato, ma neanche una brillante locomotiva.

Era seduto comodo, in azienda ci andava con le scarpe alla moda e col maglioncino legato alla vita, passando tra gli operai impegnati in catena senza rendersi conto di essere quasi provocatorio: non aveva la fame del nonno e nemmeno l’abbrivio del padre, mancandogli  il pepe, era più avvezzo al burro.

Uno di quelli che quando faceva qualcosa, sembrava portare addosso il peso del mondo, sbofinchiava, sbuffava, diceva ad alta voce:

“En minùt! Osti! So re a fa tre robe ensèma!” sottintendendo che gli altri eran lì a non fare niente, quando invece facevano tanto, anche quello che non spettava loro, ma semplicemente non andavano in giro a raccontarlo.

Non era simpatico, Fabio: il suo opulento, ma piccolo mondo lo proteggeva, lo faceva sentire un leone, ma la mancanza di esperienza empatica gli faceva  vedere in maniera univoca il panorama che aveva davanti.

Pensava che la realtà fosse solo quella che vedeva lui dal suo punto d’osservazione apparentemente privilegiato, errore di chi non ha una visione di insieme e per questo non considera che il mondo è anche altro.

Non gli mancava la capacità di fare battute, era tutt’ altro che stupido, ma spesso sbagliava i tempi, diceva una frase di troppo, generando nell’ interlocutore quell’ imbarazzo glaciale dal quale si usciva soltanto con un: “Vabbè, altro?”

Era rispettato in azienda perché era il padrone, non per la sua autorevolezza che, per altro, non aveva per niente..

Gli piaceva essere capo, con una concezione che, inspiegabilmente, rimandava al novecento, financo all’ottocento, più che ad una moderna visione industriale.

Insicuro e debole aveva bisogno della posizione per darsi un tono: la parola “padrone” lo riempiva, gli dava un senso; se la diceva pateticamente allo specchio quando era in bagno al mattino a sistemarsi le sopracciglia e poi usciva a recitare il suo ruolo.

Tutto questo faceva sì che la sua bolla vitale iniziasse e finisse nella sua fabbrica: aveva amicizie superficiali, di quelle che “grandi pacche sulle spalle e complicità ostentata davanti agli altri”, ma sotto sotto, fuffa.

La grande fuffa dettata da chi aveva interesse ad essergli amico e dal canto suo, proprio dal timore di non essere interessante per quello che era, ma per quello che aveva.

Timore che non riusciva a confessare a nessuno perché il suo ruolo, nella sua interpretazione, non prevedeva mai il dubbio.

Così eran risate plateali che rimbombavano nella sua solitudine che ai più attenti risultava evidente, ma della quale, a chi lo avvicinava per mero interesse, non importava niente di niente.

Aveva viaggiato Fabio, molto, ma quasi sempre in modo meticolosamente predisposto da qualche agenzia (per lavoro) oppure era stato in numerosissimi villaggi turistici in giro per il mondo (per dire di averlo visto il mondo, senza però conoscerlo), rifuggendo dall’incontro con le persone del luogo.

Era di quelli, per dire, che a Cuba, anzicchè bersi un Mojto con i piedi sul bagnasciuga, cercava la grappa Nardini senza mai uscire dalla struttura alberghiera ( a Bassano, sul ponte, avrebbe avuto tutto un altro sapore, ma lì non ci era mai andato).

Proprio per questa sua impostazione, non aveva occhio Fabio: non capiva le persone, non interpretava bene le situazioni, si fermava alla superficie.

Era dunque una vittima egli stesso del mondo da cui proveniva, ma giocava la parte di chi aveva in mano il pallino, quando era egli stesso il pallino, solo senza saperlo.

Capitò che un giorno fu costretto a partire per la Sicilia e non ne avesse la benché minima voglia: doveva incontrare un cliente che aveva manifestato interesse per un macchinario, ma, per fare l’acquisto, aveva bisogno di approfondir la questione.

Fabio era diffidente, perché pensava che in Sicilia non ci fossero artigiani adeguati al livello delle sue attrezzature.

Provincialismo supponente, piccolo mondo mederno.

Nella zona artigianale di Alcamo ci son sempre stati certi artisti con i metalli e col legno che con le loro manine hanno avuto la voglia e la capacità di suo nonno e di suo padre, abituati a fare andare prima la testa e poi gli arti del corpo a trovar soluzioni, con gli stessi orari indefiniti di certe valli bresciane e con lo stesso cuore.

Cuore e polmoni da sacrificare per la passione ed un futuro più prospero per i figli adorati.

 

Così il padre disse a Fabio di andare.

“Che palle! Perché io?” rispose il figliolo.

“Perché tuo nonno batteva il ferro 12 ore al giorno e tu devi solo prender l’ aereo!”

Arrivò in Sicilia verso l’una e all’aeroporto Falcone-Borsellino (ndr: ripetere per tre volte il binomio Falcone-Borsellino prima di procedere con la lettura) di Palermo si diresse svogliato alla sezione noleggi: tutto prestabilito, tutto facile, bastò dare il nome aziendale che, per altro, coincideva col suo cognome e trovò l’auto prenotata nella piazzola in cui gli avevano detto;

l’ auto era nuova, pulita e col pieno fatto, cose normali in un mondo che non si nutre di pregiudizi.

Salendo pensò: “Ah ‘sti terù, ne han fatta di strada! Per forza, con tutti i soldi che ci prosciugano!”

Sorrise compiaciuto, impostando il navigatore ed ingranò la prima in direzione di Alcamo.

Usciti dall’ autostrada percorse un raccordo che, alla fine, si immetteva sulla strada in salita che portava al paese.

Il caldo era insopportabile, lo scirocco soffiava sostenuto, togliendo il fiato: erano le due, come ad esser in un film di Sergio Leone poco prima del duello finale, con grovigli di paglia che andavano a caso sospinti dal vento.

Aveva mangiato qualcosa al volo in aeroporto e bestemmia gastronomica, aveva comprato un tramezzino preconfezionato, anzicchè buttarsi sulla tavola calda.

“Sti terroni, quanto mangiano! Me go ‘l me tramesí!!”

Questo si che era un affronto, ché in Sicilia chi produce cibi confezionati non ha vita facile, si regge solo su sprovveduti turisti a cui mancano le basi.. Vuoi mettere una bella arancina croccante ricolma di carne che fuma e che parla:” Mangiami, mangiami!” e tu la mangi per forza!

Ma lui era contento del tramezzino..

Era vestito in modo troppo formale, la cravatta avrebbe potuto dimenticarla appesa in armadio, ma lui era un padrone vecchia maniera, di quelli che la cravatta e il titolo danno forma alla poca sostanza.

Da qualche centinaio di metri era preceduto da un’ Ape Piaggio che arrancava e scoppiettava sputando un fumo bianco azzurro misto di olio e benzina:

“Àdel l’è! E noalter a fa le targhe alterne!!

Terù che fümèra!!”

Trasportava bombole e ne aveva stipate nel cassone a decine..

“I gà amò le bombole che in terronia!

Ma si può?”

“Tra trecento metri, alla rotonda, prendere la terza uscita, poi girare a destra…”

“Tè bèla, tra trecento méter sarà passac du ain! ‘Sta stufa con le ruote qui davanti non va neanche a spingerla (in realtà disse: “a incularla!” Ma nessuno lo sentì..)

Fabio aveva cominciato a parlare col navigatore chiamandola “bella”, dissimulando così la sua insicurezza ed il suo nervosismo dovuti al viaggio, al sentirsi fuori posto e a quella cavolo di Ape che lo stava rallentando e che, incredibilmente, stava andando nella sua stessa direzione.

Viaggiava sempre così Fabio, pronto a vedere i dettagli fuori posto, a criticarli, a indicarli, perdendosi l’essenza del luogo, perdendosi direttamente il senso del viaggio.

Faceva, a dire il vero, così anche con le persone, ma tant’è!

La strada era stretta, in salita e all’improvviso l’Ape si fermò.

Fabio suonò immediatamente sbraitando:

“Spòstet, ‘mbecìle! Che devo lavorare io!”

Ma poi si ricordò di non essere a casa, si ricordò di un amico che gli aveva detto:

“Ada che là, i te spara!!”

Così fece finta di niente.

Dall’ Ape scese il bombolaro in perfetta divisa lavorativa: canottiera dei Chicago Bulls (23, Jordan, of course), bermuda floreali e infradito..

“Àdel l’è! Iso 9002, inculato di uno, terù de l’osti: ‘l va ‘ngiro ‘n sàate a portà le bombole, tanto ha l’amico in questura!

E blocca il traffico!

Brët diaol porco, ada, ada, che cojoni!!”

Jordan, davanti, si girò, allargò le braccia e gli disse: “Un minuto!”

“Si, si, un minuto! To sorèla, dumà sarò amò che!

Vacca puttana!”

Nel chiuso della sua auto si lasciava andare agli improperi più svariati, sacrificando sull’altare anche qualche messaggero divino che qui, per rispetto, non nominiamo..

Preso dal proprio sbottare, non si era accorto di un anziano signore seduto davanti alla propria porta di casa, all’ombra, su uno sgabello pieghevole, le mani appoggiate ad un bastone col manico ad angolo retto, le gambe leggermente divaricate ed ai piedi dei sandali di quelli intrecciati;

la camicia aveva le maniche arrotolate, delle bretelle sostenevano pantaloni un po’ alti in vita ed aveva una coppola in testa.

Un’immagine iconica.

L’anziano lo stava guardando.

Fabio si irrigidì, pensando :” Tè, Bernardo che ghet chi de ardà? Ada che non ti conosco!”

Al contraltare, l’anziano stava a sua volta supponendo:

“Ma a cù appartene chistu (ma di che famiglia è questo)? Fete (puzza) di nord! Alle due cu la cravatta: Milano”

Il vecchietto non aveva sbagliato di molto..

Intanto, guardando la scena dall’alto, come ad essere appostati sul lampione, si poteva vedere il vecchio con la sua coppola e le mani sul bastone che pensava alla caponata della sera, ormai disinteressato al nordico che aveva così poco da dire; Fabio che attraverso il parabrezza si vedeva gesticolare tra sé e sé e  il tre ruote abbandonato con la portiera aperta..

Sbucarono dalla traversa che tagliava la via, due cavalli da tiro neri, bardati con finimenti da cerimonia anch’essi neri, i paraocchi e due pennacchi sulla testa.

Il nocchiero agitò piano la frusta a dare l’invito della partenza, accompagnando quel gesto con lo schioccare della bocca.

I cavalli si mossero: plac, plac, facevan gli zoccoli sul ciottolato e finalmente, sbucò anche l’orpello che stavano tirando: un carro funebre antico e vuoto.

Anch’esso era nero, con quattro angioletti a braccia aperte agli angoli del cassone, sopra le vetrate laterali.

Il carro passò proprio davanti a Fabio, tra l’auto e l’Ape e lui, spiazzato, con la bocca semi aperta, quasi rapito, pensò: “I se spara isè tanto che ‘n Terronia, che i dopèra amò i carri de Garibaldi! Diaol porco, fam tocà i cojoni!”

Anche Jordan arrivò in quel momento con le sue infradito e si diede una strizzatina ai cabbasisi, unico punto di contatto tra lui e quel bresciano..

Paraocchi e pennacchi, inutili orpelli a tirare il vuoto del carro: la perfetta descrizione del luogo comune in cui spesso si incaponisce la gente.

I cavalli e il loro carico evanescente passarono, l’Ape Piaggio ripartì e Fabio dietro a quella.

Intanto, volgendo lo sguardo verso nord, più in alto oltre i palazzi investiti dal vento, si poteva ammirare, con sospiro estasiato, la bellezza della campagna che degrada, coltivata, fino al biancheggiare del Golfo.

 

La bellezza gratuita che è di tutti quelli che vanno oltre i luoghi comuni.

 

Tramonto, foto generica da Pixabay

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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