🔻 A margine dell’8 marzo: attualità di una storia rinascimentale🔺DAL GRUPPO G9

Non tutti sanno dell'esistenza della cosiddetta “Sala delle dame” dipinta probabilmente dal Moretto e aiuti in Palazzo Martinengo, poi Salvadego, in via Dante a Brescia

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Palazzo Salvadego, Brescia - foto Comune di Brescia

di Laura Giuffredi – Non tutti sanno dell’esistenza della cosiddetta “Sala delle dame” dipinta probabilmente dal Moretto e aiuti in Palazzo Martinengo, poi Salvadego, in via Dante a Brescia.

Il palazzo, e la decorazione della sala, unica nel suo genere, fu commissionata da Gerolamo Martinengo da Padernello in occasione delle sue nozze con Eleonora Gonzaga, nozze celebrate il 4 febbraio 1543 (ampliamenti successivi e rifacimenti del palazzo si devono al secolo XVIII).

Dopo i danni rovinosi subiti dall’edificio in seguito ai bombardamenti del 2 marzo 1945, il ciclo di affreschi nella sala interna miracolosamente sopravvisse, ma l’impatto delle bombe rese necessario un successivo radicale restauro (eseguito subito dopo la fine della guerra da Ottemi della Rotta, che procedette allo stacco degli intonaci dipinti, poi ricollocati in loco su pannelli, con vistose ridipinture a coprire i danni subiti, in linea le pratiche di intervento dell’epoca).

Perciò oggi bisogna proprio sapere dove cercarle, queste giovani donne di casa Martinengo, forse parenti degli sposi, addentrandosi in un palazzo che solo in parte conserva, all’interno, un “cuore” rinascimentale.

Ti guardano, forse ti interrogano, appoggiandosi all’elegante balausta dipinta, su cui sono disposti tappeti orientali.

Le loro vesti sontuose esaltano la bellezza enigmatica dei volti, alcuni dei quali rivelano una reciproca somiglianza.

Le figure mostrano una pacata confidenza sia con l’interno della stanza, da cui le osserviamo e verso cui si rivolgono, sia con il diffuso paesaggio alle loro spalle, dominato da dolci colline, coltivi, aguzze cime montuose, ma anche da edifici imponenti e mura cittadine a ridosso dei declivi.

Sono disposte due per parete, ai lati di un leggero e ornato baldacchino che divide ogni scena specularmente, tranne che nella quarta parete, al centro della quale si apre una finestra.

Solo una dama, col capo leggermente reclinato in un’aggraziata torsione e con in grembo un minuscolo cagnolino, che scodinzola sull’ampio lembo della gonna di seta rossa, sembra accennare un breve sorriso. Le altre, statuarie, appaiono serie, pensierose, forse interroganti.

Le ricche acconciature sono intessute di fili di perle o nastri, altri gioielli sottolineano lo status di ricche nobili in parata, alcune con vistosi ventagli di piume. Ma a queste presenze se ne affiancano altre di valore simbolico, oltre che affettivo: cani, simbolo di fedeltà; ermellini, a indicare candore e innocenza; e ancora frutti, come l’arancia, che suggerisce l’idea di ricchezza, fertilità, sensualità; e poi il garofano, che è promessa d’amore.

Attraverso i simboli, dunque, é esplicitato l’elenco delle virtù tipicamente femminili che esse ribadivano o che forse, più probabilmente, ad esse si richiedevano.

Certamente le richiedeva Gerolamo alla giovane sposa Eleonora, “magnifica ed elegante giòvena”, presso cui tuttavia immaginiamo che si intrattenne solo nei ritagli di tempo, volendo correre tra Oriente ed Occidente per coprirsi di gloria militare e non rinunciando a vendicare il padre Antonio, che era stato ucciso, quando Gerolamo era bambino, da Giorgio Martinengo Cesaresco per fatue dispute di galateo (Manzoni ci ha spiegato benissimo situazioni del genere). Un padre, quell’Antonio, che a tempo perso aveva assassinato a botte la prima moglie, sospettata di infedeltà: questo tanto per inquadrare il personaggio!

La bella Eleonora Gonzaga, peraltro, morì di parto insieme al figlio poco dopo le nozze: ma il vigoroso marito, uomo d’armi e, a somiglianza del padre, attaccabrighe, oltre che, va detto, amante delle arti e ingegnere militare, si risposerà nel 1552 con Margherita, di Francesco Martinengo della Motella, da cui avrà tre figli.

Di tutto questo quadro, di uomini “violenti, miscredenti e bestemmiatori” (come li descrivono le fonti) ci parlano forse le dame della nostra sala? Il loro volto, più attonito che civettuolo, vuole forse lanciare un muto allarme?

Forse la più esplicita di loro è quella dipinta accanto alla finestra: gira solo il capo verso di noi, perentoria, mentre il resto del corpo è totalmente ruotato verso il paesaggio, forse a suggerire l’unica soluzione possibile: la fuga dal palazzo, verso l’esterno, verso la luce del cielo, lontano dalla gabbia dorata entro cui la si vorrebbe trattenere, insieme alle sue compagne.

Probabilmente esse hanno capito il messaggio, ma sono incerte se compiere il passo: sedute a metà su quel parapetto, tengono le gambe libere verso l’esterno e forse la loro severa compostezza è solo apparente, concentrata nel mezzobusto visibile, ma lo spirito è altrove.

Leon Battista Alberti, letterato ed architetto del Quattrocento, nei suoi “Libri della Famiglia” descrive le doti della donna come sposa ideale: dignitosa, discreta, madre prolifica, fedele al marito, non necessariamente istruita. Baldassarre Castiglione, nel Cinquecento, ribadisce il concetto, pur aprendo all’apprezzamento per una buona istruzione femminile; donne emancipate in quei secoli furono senz’altro Isabella d’Este, Caterina Cornaro, Cecilia Gallerani (quella con l’ermellino); ma, le altre? Inghiottite nelle amene stanze, se fortunate.

Anche le nostre, infatti, guardano dentro, ma forse vorrebbero torcersi del tutto entro i loro abiti ingombranti e scappare via, senza voltarsi.

Allora come oggi, il passo non è facile, nemmeno per le più coraggiose!

Palazzo Salvadego, cortile – foto Luca Giarelli, CC BY-SA 4.0 <https://creativecommons.org/licenses/by-sa/4.0>, via Wikimedia Commons

ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9

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