📕 Scarparo fitusu | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/38

Lorenzo decise che avrebbe cercato di capire se le voci sul conto di mastro Tanuzzo avessero fondamento o se fossero solo pigre illazioni da parte di quelli che non avevano niente di meglio da fare che parlar di aria fritta: sapere la verità lo avrebbe reso sereno e a quel punto, avrebbe lasciato parlare quegli altri, senza più curarsi di loro.

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Umberto Tanghetti, scrittore

SCARPARO FITUSU – racconto di Umberto Tanghetti

Lorenzo decise che avrebbe cercato di capire se le voci sul conto di mastro Tanuzzo avessero fondamento o se fossero solo pigre illazioni da parte di quelli che non avevano niente di meglio da fare che parlar di aria fritta: sapere la verità lo avrebbe reso sereno e a quel punto, avrebbe lasciato parlare quegli altri, senza più curarsi di loro.

Guardare attraverso i buchi delle serrature in paese, era attività molto apprezzata tra le vie acciottolate e strette, cotte dal sole mediterraneo; intreccio di vie d’ arabeggiante memoria, serrate come le reti che, nella stagione di pesca, si rigonfiavano di acciughe da mettere sotto sale: si cercavano argomenti per riempire pomeriggi noiosi e una semplice suggestione lievitava come la pasta dello sfincione che veniva lavorata molto idratata, sbattendola con fatica nella “maidda” di legno, affinché si moltiplicasse, inglobando brezza marina; allo stesso modo dalle bocche dei compaesani usciva

un’ aria che andava moltiplicando argomenti da cui trarre un’ occupazione morbosa: parlare delle cose degli altri.

Come quella pasta cresceva con veemente forza d’ impasto prima e lenta lievitazione poi, così le chiacchiere di quel paese, con allenati muscoli masticatori, da semplice sentito dire, diventavano dapprima indizio, poi ragionevole convinzione, fino ad essere la pistola fumante che condannava il mal capitato di turno a perpetuo ostracismo sociale.

Tanuzzo, dunque, era diventato nel corso del tempo lo “scarparo fitusu” e tutti si erano dimenticati il perché.

Se si fosse andato da chiunque a chiedere di soppiatto:

” Mi è chiaro perché lo chiamiamo scarparo, visto che fa il calzolaio, ma mi sai dire il perché

dell’ aggettivo “fitusu”?” nessuno avrebbe risposto, tenendo lo sguardo fisso a strabuzzare gli occhietti, come fa il piccione davanti ad una mollica di pane.

Questo perché, in fondo, nessuno sapeva il motivo per il quale fosse considerato fituso ovvero  puzzolente come il pesce quando va a male; tuttavia, l’aggettivo non indicava tanto un afrore fisicamente apprezzabile, piuttosto era indizio di un marciume interiore, dell’ essere doppiogiochista, sleale, inaffidabile.

Quel calzolaio era, in effetti, un personaggio un po’ singolare:  intanto era sciancato perché da piccolo si era beccato la poliomelite ed una volta arrivato

all’ età in cui si facevano scelte di vita, decise che sarebbe diventato calzolaio per imparare a ripararsi da solo la scarpa del piede sinistro che spiattellava, camminando con fare strisciante, con quell’ arto malconcio.

Già lo strisciare accendeva recondite suggestioni di animali non proprio apprezzati dalla volgata comune e questo generava un’ inconscio primo nucleo di cristallizzazione pregiudiziale:

“Quello è uno che striscia!”

Così imparò il mestiere senza avere una vera e propria vocazione, ma un’ intuizione inerziale tra l’utilità ed il conveniente.

Aveva fatto le scuole professionali e dopo il diploma conseguito con onesta dedizione, senza brillare come invece fanno le lampare nelle notti di agosto, aveva iniziato a pagare l’ affitto riuscendo poi a comprarsi le quattro mura della bottega  in cui faticava: quel luogo era organizzato in modo caotico, ma ogni cosa aveva una collocazione nella mente di Tanuzzo e lui, in quella baraonda, ci si orientava  a meraviglia.

L’ingresso dava sul Cassaro, la via principale ed era la soglia di una vecchia canonica ormai sconsacrata che era stata nel corso degli anni rimaneggiata più volte.

Il portone di legno era di quelli che si dividono in tre: all’ apertura due ante si appartavano, unite, sul lato sinistro, verso l’ interno e la terza rimaneva da sola sul lato di destra, come ad essere colui che, nelle notti di estate, suonava chitarre a permettere il sollazzo di altri.

Il livello del pavimento era più basso rispetto al marciapiede, così per entrare, dovevi fare  due mezzi gradini che finivano su un manufatto di tufo alla vecchia maniera, installato chissà in quale notte dei tempi.

Sui muri un intonaco che faceva intravedere i vari strati geologici che via via si erano susseguiti: ne venivan via brandelli, così il muro era picchiettato di diversi colori, a seconda dell’ intonaco vecchio che vedeva la luce.

L’ ultima mano era bianca di calce, ma si potevano notare un azzurro tenue, un rosso ed un verde linoleum risalente agli anni settanta.

Al centro di quella piccola stanza c’ era il bancone su cui eran installati tutti gli attrezzi del suo mestiere: morse a fissare le suole, le forme per le tomaie, il martelletto per battere il cuoio, chiodi per tacchi, trucioli di gomma e ritagli di pelle alla rinfusa ammassati e una bella latta di colla puzzona, di quelle che inebrian le menti di chi non ha diversivi, col pennello infilato nel centro e tutte le tracce di gocce appiccicose  sparse a raggera ad allontanarsi dal contenitore.

In fondo alla stanza un mobilio senza ante con tanti scomparti in cui conservare, da un lato le scarpe ultimate e dall’altro quelle da riparare.

Il principale tratto caratteriale di mastro Tanuzzo era quello di esser curioso come la suocera che vorrebbe sapere se già si è consumato l’amore tra la propria figliola e il novello marito: non osa chiederlo, ma si informa tirando cassetti, sbirciando nel bagno, chiedendo ai vicini.

Anche Tanuzzo non riusciva a tenersi.

Se, per esempio, passava una persona non proprio del posto, a lui sconosciuta o che destava una qualsivoglia forma di curioso interesse, si alzava di scatto, attaccava un cartello alla maniglia della bottega e la seguiva.

I cartelli da lui preparati erano tre a seconda di quanto pensava che sarebbe mancato e così, il primo livello era un innocuo:” Qua sono!”.

Si passava poi ad un : “Torno subito!” ad indicare un impiccio più lungo, fino ad arrivare ad un:

” Sono in posta ” che lasciava presagire

un’ indeterminatezza tale, da fare desistere coloro che lo stavan cercando.

Così lo scarparo poteva seguire la “vittima” fino ad avere un indizio che gli facesse capire di chi fosse amica, dove abitasse o chi andasse a trovare: una volta collocato nello spazio e nel tempo l’ oggetto del suo interesse, mastro Tanuzzo se ne tornava felice alla propria bottega a dar di martello per ammorbidire ciò che restava di un vitello ormai da tempo cadavere e conciato per bene.

Questi suoi inseguimenti che erano, in vero, innocenti, minuzie di un’ anima non certo gloriosa, fecero nascere nell’ immaginario comune l’ idea che quel personaggio zoppicante fosse un potenziale maniaco.

La gente si dava di gomito: “Signora, ha visto lo scarparo, esce sempre dalla bottega per fare pedinamenti. A me non piace!”

“Ah, non me lo dica nemmeno, con quello che si sente in giro! Non piace neanche a me!”

Finché un giorno uno disse:” Per me è uno scarparo fitusu!” e quella definizione piacque, funzionò in un batter di ciglia e passò di bocca in bocca a creare una fama fondata sul niente.

Eppure, a causa di questa sua reputazione, il povero mastro Tanuzzo veniva cercato solo per fare riparare le scarpe che gli venivano passate in modo freddo e fugace, senza dar confidenza: così non aveva altra vita sociale che quegli incontri con in mezzo il bancone e pativa una solitudine dovuta a quel cortocircuito di pregiudizio.

Era per quello che non perdeva occasione di sapere tutto di tutti, era il suo modo per sentirsi vivo, per sentirsi parte di quel piccolo mondo:

senza conoscerlo, i suoi compaesani lo giudicavan fituso, mentre lui che conosceva ogni dettaglio di molte persone, di nessuno pensava alcun male.

Lorenzo voleva vederci chiaro perché a lui non quadrava qualcosa: nessuno si era mai lamentato di avere subito una qualsivoglia forma di torto, nessuno aveva mai denunciato molestie subite per mano di quell’ artigiano, niente di niente.

Si mise allora ad osservarlo con maggiore attenzione andando nei pomeriggi assolati a comprare il gelato nel bar accanto alla canonica sconsacrata, vicino alla chiesa lì annessa che era diventata libreria assai ricercata.

Così si portava un libro per non destare sospetti, passava a comprare un gelato al pistacchio e si accomodava sulla panchina al calzolaio di fronte.

Mastro Tanuzzo lavorava ad un ritmo non proprio serrato, pareva la sua, la danza di uno che doveva fare passare del tempo: dava due colpi, posava il martello, si affacciava dalla soglia della bottega e guardava a destra e sinistra.

Se tutto era a posto, tornava dentro e ricominciava da dove aveva lasciato, con un occhio a scrutare di fuori, l’altro fisso sulla tomaia di turno e le orecchie tese a captare segnali di vita provenienti da fuori.

Era gobbo un pochino, come se il peso degli anni lo tirasse giù sul davanti, era scapigliato e bianco come certi signori anzianotti che ora ostentano uno stile un po’ dandy fintamente spontaneo, mentre in lui, al contrario, l’approssimazione era sincera come il vino del contadino: pastoso, un poco acidulo, con abbondante deposito di fondo, ma genuino.

Solo che per apprezzarlo davvero, dovevi cancellare quello che socialmente avevi imparato, proprio come si fa con il vino di casa: nessuna ruffiana assonanza col legno, dimenticare le note cioccolato tendente al tabacco, lasciar perdere i lampi di viola in un fragore di sottobosco, ma apprezzare una corposità da frullato, un grado alcolico forte come il sole d’estate e abbinamenti spartani col formaggio assai stagionato, mangiato con mani sporche di sudato lavoro,  seduto su un di  muretto in campagna.

Ecco che allora anche mastro Turiddo avrebbe tirato fuori il suo punto di vista, in un italiano stentato, con la franchezza di chi non è così scaltro o così ipocrita da filtrare considerazioni talvolta un po’ imbarazzanti e sarebbe stato felice di essere interlocutore ascoltato.

Quanto al suo abbigliamento, era in perfetta assonanza col suo aspetto corporeo:

generalmente un lungo e pesante grembiule da lui stesso cucito lo copriva sul davanti fin sotto al ginocchio; era fatto di cuoio a proteggere il corpo dalle martellate e dagli inghippi lavorativi, ma ai suoi piedi calzava sandali aperti, come ad essere un frate laico a fare penitenza sgobbando intere giornate.

Aveva dei pantaloni un po’ larghi, senza una forma precisa a seguire l’ anonima moda approssimativa che è sempre sulla cresta dell’onda: in ogni epoca uguale a se stessa, abiti messi alla rinfusa su corpi piegati dalla fatica che non hanno il tempo e la voglia di indossare tessuti dopo averci pensato.

Così, alla mattina, mastro Tanuzzo allungava la mano sulla sua sedia vicino al suo letto e si infilava ciò che trovava.

Poi, ogni tanto, metteva il vestiario a mollo in una tinozza zincata per fare bucato, senza dare cadenza organizzata, ma solo così, a sentimento.

Aveva dolori un po’ dappertutto per via della sua camminata sbilenca: la schiena, le ginocchia, le sottili caviglie oberate da movimenti imprecisi e poi le sue mani consunte da una vita di azioni ripetitive.

Proprio le mani potevano essere indizio assai prezioso per capire quell’ uomo ed anche Lorenzo ne era ben conscio: da sempre gli avevano insegnato  che le dita, i palmi, i dorsi con i quali un uomo si procaccia di che soddisfare se stesso, ne descrivono bene l’ essenza.

Così il ragazzo si mise in testa che doveva scrutare per benino gli avambracci di Mastro Tanuzzo per capirlo fin nel profondo dell’ anima.

Non era quello un compito facile, perché da lontano le mani son semplicemente mani: del papa, del sindaco o del peggior criminale, poco cambiava.

Doveva ingegnarsi per andargli vicino senza destare sospetti e gli venne incontro una necessità tutt’ altro che originale: gli si ruppe una scarpa! Questo era un segno da cogliere al volo e così il pomeriggio stesso arrivò alla bottega con in mano un cartoccio contenente le calzature da riparare:

“Buongiorno, Mastro Tanuzzo, ho qui delle scarpe per lei: devo aggiustare il tacco che ieri ha ceduto.”

“Ora provvediamo, come sta don Nana’?”  gli chiese. Don Nanà era il nonno del giovane ed anche a lui riparava le scarpe.

Intanto Lorenzo gli guardava le mani: erano sporche di colla e colore dei pellami che maneggiava. Le unghie nere e un po’ smangiucchiate, la pelle dura e coriacea sollecitata da movimenti ripetitivi e le falangi erano unite da giunzioni rigonfie per l’artrosi e

l’ usura.

Parevan legnetti bitorzoluti come potevan sembrare le mani di certi burattini-giocattolo ai quali si possono muovere gli arti a piacimento, solo che quelle del calzolaio erano forti come la morsa che avea sul bancone.

Tanuzzo gesticolava velocemente parlando e Lorenzo non riusciva a fissare un’ immagine certa come ad essere un fotogramma sul quale fare una vivisezione accurata.

Il vecchio si accorse dell’ attenzione del giovane che lo fissava con le sopracciglia corrucciate e gli disse:

“Questo? Devo tenerlo così perché mi sono struppiato il dito ormai ave vent’ anni!”

Faceva riferimento ad una fascetta di cuoio che teneva uniti l’anulare ed il mignolo della mano destra perché si era  rotto il tendine del dito più piccolo che gli rimaneva esteso ciondolante come in un’ impotenza alla quale aveva posto rimedio in quell’ empirico modo.

Funzionava che era una meraviglia.

Poi gli vide l’ indice la cui ultima falange era deviata tutta d’ un lato per via di certe deformazioni che il tempo impone a progetti di vita inizialmente perfetti e  così si suggestionò per un attimo pensando che, se mastro Tanuzzo avesse indicato qualcosa con quell’ indice teso, in realtà con quella deviazione finale avrebbe voluto intendere altro: ecco perché era fituso, pensò per un attimo, perché lui indicava con un dito che devia la sua traiettoria in modo improvviso intendendo tutt’altro!

Poi, però, tale ipotesi gli sembrò persino ridicola e non la confessò mai a nessuno.

Era vero, dunque, le mani parlavano, ma non arrivavano a dire le intenzioni dell’ uomo: si poteva dedurre il mestiere, la fatica vissuta, la cura con cui si teneva alla propria persona, financo se eri un tipo preciso o se vivevi in modo approssimativo, ma la lettura di quelle falangi artrosicamente  rimodellate, non aggiunse nulla di più di quello che Lorenzo già non sapesse.

Fu in quel momento che Lorenzo capì che la sua attenzione doveva posarsi sull’ individuo tal quale, tralasciando i dettagli che apparivano chiari: un po’ come quando a ballare alle feste ci si abbandona senza pensare allo stile, ma al divertimento e allora gli arti partono senza curarsi di tutto il contesto, si ride, si suda, ci si sfinisce con la briglia un po’ sciolta.

Ecco , anche con questo improbabile interlocutore l’approccio doveva essere tale, senza

quell’ occhio di inquisizione che già aveva fatto il suo danno, allontanando il povero Tanuzzo dal contesto sociale.

Così Lorenzo gli disse:” Tanù, se lo beve un caffè nella piazza?”

Il vecchio ne fu sorpreso, ma non disse di no, anzi rispose immediato:

” Il caffè è un piacere, ma se non c’è che piacere è? ” e ridacchiando appese il cartello di mezzo: “Torno subito!”

Camminavano i due a raggiungere la piazza in cui il Cassaro sfociava passando davanti alla cattedrale, dove i compaesani si riunivano a pregare e a darsi di gomito.

Mastro Tanuzzo strisciava la gamba e la ributtava in avanti come ad inseguire col resto del corpo quella sua antica menomazione e anche Lorenzo che il giorno prima si era la caviglia slogato saltando in un fosso, un poco cedeva in una cadenza interrotta da una zoppia.

Sembrava imitare quel vecchio con timido accenno, come a dare conferma dell’antico luogo comune che chi va con lo zoppo..

Da dietro una finestra dell’ antico palazzo Bonanno di fronte alla chiesa madre, si scostavano in modo furtivo tende di seta ricamate con sapienza antica.

Parevan la lingerie morbosa che accalappia illazioni sotto abiti su misura cuciti per la domenica, quelli con i gomiti lisi a richiamar l’ attenzione del vicino di banco, per fare notare dettagli succosi per i nullafacenti, mentre procede la predica.

Lorenzo sapeva: si girò d’ improvviso verso la setosa finestra ed incontrò lo sguardo di donna Bonanno, facendole un cenno di saluto come a togliersi il cappello.

La donna indietreggiò infastidita, ma ricambiò altezzosa il saluto: Lorenzo rideva interiore come chi aveva avuto conferma di un’intuizione giudicata ridicola.

Se solo la donna avesse saputo che mastro Tanuzzo stava parlando di una compaesana che senza avere indumenti intimi assai raffinati te ne dava visione per quattro lire, sarebbe forse svenuta!

Incontrarono anche il medico condotto da poco andato in pensione:” Dottore una ‘nguanta ci devo fare ai sui piedi, passasse che le prendo le misure! Non le sentirà neanche ai suoi piedi!”

Erano anni che glielo diceva e il dottore aveva sempre spostato in avanti l’ impiccio di avere scarpe nuove:

” Quando sarò in pensione! ”

Quel giorno accettò e gli disse : ” Ci vediamo domani in bottega!”

Era l’ora in cui nella piazza si facevan due chiacchiere mangiando brioche col gelato e bevendo sontuosi caffè di granella ghiacciata.

Correvano i bimbi e i cani randagi dietro ai piccioni, non tutti si davan di gomito, ma si godevano l’ ora propizia alla spensieratezza.

Tramonto, foto generica da Pixabay

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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