📕 Stato interessante | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/39

Lo stato interessante in cui si trovava era un misto di soffice leggerezza e soddisfazione come quando, bevuta una birra media, si ritrovava con le braccia pesanti e la testa ronzante a godersi mollemente l' eloquio di chi gli stava di fronte, in un ambiente che magicamente si ovattava a puntino

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Umberto Tanghetti, scrittore

STATO INTERESSANTE – racconto di Umberto Tanghetti

Lo stato interessante in cui si trovava era un misto di soffice leggerezza e soddisfazione come quando, bevuta una birra media, si ritrovava con le braccia pesanti e la testa ronzante a godersi mollemente l’ eloquio di chi gli stava di fronte, in un ambiente che magicamente si ovattava a puntino.

Vent’ anni prima era stato per quasi tre ore seduto dietro al naso più grande del mondo: non aveva mai visto niente del genere, doveva essere una qual forma di deturpazione facciale dovuta a chissà quale esito patologico.

Anche il resto del corpo era colossale, nutrito da un regime alimentare lassista e assai appagante nell’ immediato: tritava quell’ uomo,

a piene ganasce e si girava, ogni tanto, a decantare la bontà di quello che in ingresso passava, colando giù nell’ esofago.

“Very good!” – diceva – col pastone incollato sui denti.

Era un tipo allegro, di poche parole, forse perché non aveva né modo né tempo di pronunciarne, avendo sempre la bocca impegnata dal bolo ed emanava una strana energia immobilista di quelle che non fan venir voglia di fare, ma di esser poltrone col sorriso stampigliato sul viso.

Era vestito in modo iconico: un cappello da baseball bianco e rosso messo al contrario, cosicché lui che gli era seduto dietro, poteva leggere la scritta Red Sox in modo forte e chiaro.

La maglietta, nelle medesime tinte del copricapo, era a strisce orizzontali che gli evidenziavano un girovita fuori controllo, con limacciosi aloni sotto le ascelle, una fascia bagnata centralmente lungo la schiena e giù, verso il basso, un principio di sorriso chiapposo che faceva capolino da mutande tese e mezze cadute, con qualche ricciolo di pelo a svolazzare sulle ali

dell’ entusiasmo.

Una ola lombare da stadio.

Aveva bermuda larghe e abbondanti un poco lise internamente, laddove lo sfregamento cosciale opponeva resistenza al suo moto da spostamento e i tasconi sui lati all’esterno, con le patte rivoltate all’ insù, eran, invece, stracolmi di tovaglioli unti e bisunti.

I polpacci erano mastodontici, ricoperti da una rada peluria biondiccia su carnagione chiara, i calzini rossi, ovviamente e raccolti su malleoli usurati dal peso, appoggiati a scarpe portate mezze aperte per non avere stringhe da riallacciare, vista l’inerzia da superare per piegarsi ed arrivare laggiù così in basso.

Tutto intorno per terra resti di contenitori di cibo spazzato via come dall’ uragano Katrina a Palm Beach: hot dog, patatine, pop corn, certi dolciumi di indecifrabile fisionomia e poi litri di coca – baby –  con rutti strozzati a sfiatare, come un camion che in discese ardite, di freno motore faceva una religione di vita.

Freno motore a tritare hot dog fritti nel loro stesso lardelloso essudato e sfiati a dissimulare rutti liberatori.

All right baby, al Fenway Park si respirava un clima gioviale di attesa e intanto si rifocillavan le membra con ipercaloriche contretezze a conquistare la frontiera del tutto è possibile.

Iniziò a copiare il suo amico Nasone che non conosceva, ma che gli dava fiducia: i suoi “very good” erano garanzia, come se fosse un critico gastronomico in missione segreta a valutare la qualità del cibo servito in quello storico stadio e così osservava da che Stewart si facesse portare il peccaminoso intruglio di carne e lo imitava, a ruota, dissimulando la sua totale incapacità di pronunciare parole in un inglese che, poi, era americano e la pronuncia era tutt’ altra cosa, sguaiata e pacchiana, sebbene Boston fosse la città a stelle e strisce più vicina al concetto di Europa.

Alzava il dito subito dopo Nasone e diceva al ragazzo che aveva il vassoio al collo allacciato e camminava tra la marea di tifosi: “The same, thanks!” strizzandogli l’ occhio, simulando

un’ intesa che quello sicuramente non poteva capire.

Così arrivò il primo panino con le salse a colare sui lati ad ogni boccone: era doping sensoriale di quello pesante e l’ atmosfera aggiungeva un’ ilare sospensione del tempo che rendeva tutto più facile.

Cominciò a pensare che a Boston sarebbe diventato, nel giro di poco, un colosso anche lui, una montagna di hamburger digeriti e trasformati in un ammasso informe a trascinarsi in faticosi spostamenti col solo scopo di procacciarsi il cibo di cui non avrebbe più saputo fare a meno.

Era il loop della perdizione biliare che ti distrugge mangiando: assaggi, ti piace; riassaggi, vacilli e cominci a scovare  degli alibi; un altro boccone e ti racconti che sarà l’ultimo, ma ti ritrovi, senza riuscire ad ammetterlo, a non sapere più smettere, fino a lievitare come il panettone i giorni prima dell’ agognato Natale.

La partita era iniziata, ma pareva, ai suoi occhi da sprovveduto, che nessuno se ne fosse accorto: un via vai di gente dai sedili presidiati da famigliari ed amici che avevano tenuto il posto per fare massa critica tutti assieme e godersi le attese, gli atti difensivi e gli attacchi di uno sport che gli ricordava in una certa misura gli scacchi.

Una brezza soffiava dal campo verso gli spalti, alzando folate di carte cadute tra i sedili a ribalta: eran gli avanzi cartacei dei boli tritati in spasmodica attesa che qualcosa accadesse,  come ad essere al cinema cercando di intuire dove si fosse nascosto il principale indiziato.

Il baseball  lui non lo capiva nemmeno, ma cominciava ad apprezzare quell’ abbraccio di gente leggera nell’ animo, quell’ entusiasmo di bambini anagrafici e di bambini oramai adulti diventati colossi, ma che restavano genuinamente entusiasti ad aspettare l’ avanzare degli inning.

Se gli avessero chiesto di descrivere il baseball, quel giorno avrebbe proprio risposto:

” Entusiasmo per niente “, senza bisogno di aggiungere altro a raccontare uno sport di cui non ricordava nemmeno le regole.

Eppure, passando davanti allo stadio dei Red Sox  poco prima della partita, non aveva resistito e si era comprato il biglietto: era contento di essere solo e di non conoscer nessuno per  intrufolarsi anonimo in un mondo non noto, come ad essere mosca che osserva e prova a capire, senza aspettativa alcuna, senza dover dare spiegazioni al vicino di posto.

Così, trovato il numero della fila corretta e  abbassata la ribaltina verde a lui assegnata, si accomodò dietro a Nasone che  pareva esser di casa.

Fu lì che cominciò a mangiare il suo primo hot dog, con la senape che gli pizzicava fin dentro alla pelosa mucosa filtrante l’aria di festa in ingresso nel suo turistico corpo europeo.

I giocatori in campo facevano il loro dovere e la squadra avversaria, gli Indians di Cleveland, aveva iniziato meglio il confronto, passando in vantaggio da subito, accumulando tre punti di abbrivio già al primo inning.

Nasone non pareva curarsene più di tanto, una pace agonistica, una sorta d’ attesa si respirava impalpabile, come quando il gatto guarda svogliato una lucertola alla quale ha già dato una zampata a stordirne la cognizione nervosa: finge di dimenticarsene, incrocia la zampa anteriore sinistra su quella di destra ed osserva di soppiatto la vittima che crede di averla scampata.

Al momento opportuno si alza a porre fine ad illusorie aspettative di scampo.

Fu così in quella partita: la gente finì di mangiare e quel diamante a forma di terreno di gioco che è il Fenway Park entrò in risonanza col pubblico.

L’ erba del campo, i giocatori, i tifosi, financo la struttura metallica delle tribune iniziarono ad emanare un magnetismo inspiegabile.

Era il momento.

Chiuse gli occhi per un istante e si sentì proiettato nel tempo allo svolazzare di cappellini all’ inizio del Novecento, immagini saltellanti e accelerate con dettagli sgranati di  quando quel luogo era stato costruito per meglio tifare la squadra: riti tramandati di padre in figlio, di famiglia in famiglia, come un telefono senza fili che viaggia, soffiando nella vela tifosa fino ad arrivare a quell’istante che lui stava vivendo.

Partì sordo e ovattato dalla tribuna alla sua sinistra un mantra che non capiva: pian piano

l’ onda sonora arrivò anche nel suo settore e tutti contribuirono a quell’ incitamento fuori dal tempo:

“Here we go Red Sox, here we go!

Here we go Red Sox , here we go!”

I giocatori ebbero un fremito, si fermarono un attimo, lo si percepiva; guardarono la gente intenta a soffiare sul tizzone agonistico ed il pubblico continuò fino a fine partita quella litania propiziatoria senza mai smettere.

Cominciò anche lui a collaborare allo sforzo, come se ognuno dovesse fare la propria parte fino a perdere la voce e la squadra rispose, cambiò marcia, recuperò punto su punto, fino ad esser sotto di due all’ ultimo inning.

Lo tsunami emotivo era partito da molto lontano, da una tradizione che non si improvvisa e

l’ ondata pareva inarrestabile anche ai suoi occhi che di quello sport poco capiva e del quale riusciva ad apprezzare solo il contesto.

Non capiva i tocchi a uscire, le smorzate in battuta, le rinunce alla corsa, l’ osare la conquista di una base aggiuntiva, però si sentiva parte di quello spettacolo, aveva modo di dare il suo contributo buttando in campo una partecipazione da sprovveduto.

Eppure quando il battitore cominciò a roteare la mazza nell’ ultimo inning, puntando per bene i piedi per terra, pensò in un bresciano stretto tra i denti: “Ghe sòm! Dàga sota, gnaro, dai che ‘l ghe!”

Tutto lo stadio continuava a cantare lo stesso concetto nella lingua del posto perché, quando bisogna dare tutto, non importa come lo dici, devi solo passare all’ azione:

“Here we go Red Sox, here we go!!”

Ci fu un attimo in cui il lanciatore si concentrò portandosi al petto le mani col guanto e la palla, raccolse le forze, guardò di lato segnando qualcosa di indecifrabile al ricevitore rannicchiato alle spalle del battitore, alzò il ginocchio e con un colpo di frusta uncinato scagliò la palla a velocità stratosferica.

La mazza che si era da poco fermata nei sui spostamenti di attesa, piccole rotazioni a due mani per esser reattivi, partì con un sibilo a fendere l’aria fino a sentire un ciocco sordo e pieno, come una miccia che infuoca uno stadio.

Partì quella palla in un’ impennata perfetta a lunga gittata e corse più luminosa del diamante di gioco.

“Here we go Red Sox, here we go!!” l’accompagnò la folla fin fuori dal campo e lo stadio esplose tutto in piedi con la gioia di chi ha dato tutto.

Era il momento.

Fuori campo oltre l’ostacolo dei contenimenti imbottiti ai piedi delle tribune, oltre le incrostazioni sociali, oltre le ingiustizie di chi sempre sta sotto; la liberazione agognata, cercata impostando strategie difensive, studiando mosse d’attacco, faticando umilmente, incassando fino all’ultimo sforzo.

Non sempre finiva così, ma lì sempre si arrivava: al Fenway Park si vendeva cara la pelle da oltre un secolo e quella partita gli lasciò in bocca metaforiche ispirazioni di vita oltre ad un aglioso sapore di senape.

Si vince o si perde, ma ci si prova, baby, sempre.

Nasone era impazzito, con un’ agilità inaspettata schizzò in piedi e girandosi, l’ abbracciò come ad essere amici da chissà quanto tempo.

Gioivano tutti e lui compreso, a pugni serrati: avevano vinto i Rossi Calzini e pure chi il tifo lo aveva fatto per bene.

Erano tutti felici, era per questo che andavano allo stadio e quell’esperienza l’avrebbe segnato, insegnandogli molto di più di quello di cui ebbe percezione a quel tempo.

Rientrato in albergo, prenotò l’autobus diretto a New York per l’indomani mattina quando

arrivò con un po’ di anticipo alla stazione degli autobus, tanto che potè scegliere di sedersi sulla prima fila di sedili per meglio guardare fuori ed avere la più ampia visione d’ insieme: primo sedile salendo a sinistra vicino al finestrino, il posto del secchione canzonato da tutta la classe.

A Coplay square salì una giovanile signora, di quelle che oggi ancora si chiaman ragazze, ma che hanno sui quarant’ anni, piena di fascino e un poco grossetta, con quella burrosa fisionomia che riempie le vesti senza esser eccessiva, come intenta in gestazionali esperienze di vita.

Si sedette a lui accanto e subito notò che dalla maglia a maniche corte  sbucava, tatuata sul braccio, la sagoma della Sicilia.

Anche lui aveva un indizio italiano ad attirare l’attenzione reciproca, un giornale di due giorni prima che si era messo a leggucchiare senza molte pretese, guardando più che altro lo scorrere del paesaggio urbano al di là del parabrezza.

La ragazza gli disse all’ improvviso: “Sono così fiera dell’ Italia! Mi sento italiana, sotto una pelle americana.”

Parlò con accento anglofono dolcemente marcato e con gran padronanza linguistica.

Per un attimo si chiese come avesse fatto lei  a capire che fosse italiano, ma il giornale che aveva tra le mani era una pistola fumante un po’ troppo evidente e passò subito oltre.

“Dunque è la Sicilia che hai tatuata sulla spalla?”

“No, è tutta l’Italia!” e si tirò su la manica a scoprire il deltoide: c’era tutto, dalla Valle d’Aosta alle isole, senza distinzioni regionali, il profilo italico colorato di verde, bianco e rosso e in secondo piano un contorno più leggero a forma di cuore che si intersecava con la penisola.

“Me la sono tatuata perché la mia radice è lì: mia nonna e mio nonno sono arrivati da Castelbuono un secolo fa e qui sono rimasti, avendo trovato di che vivere. Vissero malinconici anni ripensando ai fratelli che non potevano più rivedere, erano tristi perché costretti lontani dalla casa dove erano cresciuti, ma fiduciosi per un futuro migliore.

È per questo che hanno saputo comunicare a mio padre che cosa voglia dire l’Italia e lui a me, così io ho studiato italiano ed ora lo insegno a quelli che hanno la voglia di sapere il perché l’ Italia sia così bella.”

Era sorpreso di questo entusiasmo e di questo attaccamento ad un’ idea di patria cosi indecifrabile.

Spesso aveva visto nel suo breve panorama turistico assai limitato, uno stereotipo di italiano che lui detestava: tutto aglio e soffritto, con certa improponibile musica a fare da sfondo e il gel tra i capelli.

A Brooklyn aveva sentito usare termini italici ormai caduti in disuso anche in Italia, ma tramandati da oltre un secolo al di là dell’ oceano: quei ricordi italoamericani parevano ancora vivi in chi lo narrava e chi in Italia non era mai più tornato o addirittura non era mai stato, pensava che  il luogo natio dei propri avi fosse ancora uguale a se stesso, un luogo che in realtà non esisteva da un pezzo.

L’autobus si fermò per fare salire gli ultimi passeggeri prima di immettersi nel raccordo autostradale verso New York e sotto l’insegna a forma di levriero della compagnia a basso costo che collegava le due città, aspettavano tre signori ebrei ortodossi vestiti di nero, coi riccioli lunghi che sbucavano fuori dal loro nero cappello.

Salirono.

Un anziano seduto alla sua sinistra, oltre il corridoio, cominciò ad innervosirsi e senza farne plateale espressione, si percepiva che li detestasse, che non li potesse soffrire: non capiva che cosa sbofonchiasse stretto tra i denti, ma percepiva uno scalpitio da cavallo imbrigliato alla partenza, quando la gabbia che ne trattiene la corsa impedisce l’esplosiva galoppata verso l’obiettivo che in quel caso sarebbe stato un insulto, financo un pugno scagliato deciso.

Eppure la vergogna per quei pensieri razzisti forse lo tratteneva da reazioni concrete, come quando la suocera appella la nuora a mezza ganascia, per poi sostenere di non aver proferito parola: il messaggio arriva, ma rimane il dubbio di aver male inteso e si decide che non ne valga la pena.

La ragazza si accorse del suo imbarazzo e della sua intuizione e gli disse:

“Anche mio padre li odiava, non ho mai capito il perché. Però ha fatto lo sbarco in Normandia nel quarantacinque.

In effetti non ho mai capito né il perché li odiasse né perché si sia arruolato, ma penso che sia partito con l’idea ingenua di salvare l’Italia, non certo loro.

Da qui la guerra pareva cosa pulita, una faccenda da sbrigare coi guanti per poi ritornare portati in trionfo; eppure la guerra è fatta di contraddizioni, non soltanto di eroi: era pieno di stronzi, imboscati, vigliacchi e poi di coraggiosi, spaesati, onesti o filibustieri.

Mio padre aveva coraggio da vendere ed era un ragazzo per bene che partì per ritornare di là

dall’ Atlantico facendo il viaggio contrario che i suoi genitori avevano fatto solo venticinque anni prima: sperava di sbarcare in Sicilia, ma fu spedito in Normandia.

L’esercito era un’ espressione di umanità variegata e partita anche per caso, non solo per scelta consapevole, convinta o da una propaganda illusoria o da romantiche idee non veritiere che il sangue a quell’epoca non esistesse, che fosse in bianco o in nero, facendo meno impressione.

La sua guerra durò solo l’attesa di fare lo sbarco: quando il mezzo anfibio si aprì, vennero colpiti da una valanga di colpi ed una granata investì in pieno il compagno seduto accanto a mio padre e lo uccise all’ istante, mentre papà venne ferito, svegliandosi solo in ospedale dopo un coma profondo. Così, quasi, la guerra non l’ ha neanche vista e non ha sparato nemmeno un colpo, ma lui là c’era, pur odiando gli ebrei.

Condivideva anche lui questo discorso sulle contraddizioni e avrebbe voluto rincarare la dose, per esempio ricordando come fu possibile chiedere aiuto alla mafia per liberare l’Italia: un

Lucky Luciano di questi da rendere interlocutore da lì in avanti, condannandoci ad una liberazione ammaccata, ad una sottile linea rossa di vomitevoli compromessi.

E Montecassino? Distrutto per quale motivo?

E certi plotoni in bassa Italia ad insegnare le buone maniere a donzelle indifese e a massaggiare la schiena a certi mariti gelosi?

Però non disse nulla, non voleva alimentare polemica, non ne aveva voglia, voleva solo ascoltare, sentire il punto di vista di lei che conosceva davvero esperienze vitali assai rispettabili.

Non era come quegli Italo americani che pensano che l’Italia sia ancora quella dei primi anni del Novecento, perché lei aveva visto anche altro.

Eppure quei ricordi di vite imbarcate in precari piroscafi le conosceva, le aveva vissute nei racconti dei nonni e dei padri e questo era per lui un prezioso punto di vista, da ascoltare con grande piacere.

Tentò di cambiare argomento, ma sbagliò modo e rovinò tutto:”A quando la nascita?”

“Come scusa? Non aspetto bambini.” rispose visibilemte delusa la donna e per lui fu come morire di mortificazione.

Scese il silenzio sulla loro conversazione e si mise a guardare fuori dal finestrino in attesa che New York arrivasse di corsa.

Cominciò a vederne il profilo con grande sollievo, riconobbe le torri gemelle e quando la sua fermata si stava palesando, all’ incrocio tra la trentunesima strada e la quinta si alzò in piedi, lei scostò le gambe verso il corridoio interno e lui scese un gradino davanti alla porta d’uscita in modo da esserle davanti, in piedi, ma alla sua stessa altezza che era seduta.

Le mise una mano sull’ avambraccio e le disse:

” Mi spiace di avere rovinato la nostra conversazione, volevo solo trovare un argomento per non smettere di parlare.”

“Non preoccuparti, succede. Shit Happens.” Rispose lei per nulla scocciata, ma oramai distaccata.

Erano le prime parole che gli diceva in inglese a rimarcare la siderale separazione che voleva tenere.

“Comunque è stato interessante.” le disse sorridendole e lei che era davvero italiana capì e sorrise quasi a dire che avrebbero potuto anche riprendere conversazione.

Si ritrovò sul marciapiede tra la trentaquattresima e l’ottava strada e annusava quell’ aria dolciastra e vagamente metallica di New York dove nessuno si accorgeva di lui.

A distanza di anni ora ricordava quei giorni e ricordava che è vero che la merda capita, a volte copiosa, a volte con collettiva distribuzione occlusiva.

Eppure, chiudendo gli occhi, era quello il momento in cui partiva dalla tribuna quel grido

d’ incitamento che arrivava dal secolo scorso:

“Here we go Red Sox! Here we go!”

Era in battuta e guardava gli spalti al rallentatore: saltelli di bimbi, volti di padri a gridare con sguardo d’ intesa: “Dàga sota gnaro! Dai che ‘l ghe!”, entusiasmo di madri, incitamento di amici, partecipazione di sconosciuti.

Il sole era alto e lo colpiva di striscio: sistemò la visiera, piantò i piedi per terra ad aspettare il colpo del lanciatore.

Era il momento.

Al Fenway Park si vende cara la pelle.

Sempre.

 

Tramonto, foto generica da Pixabay

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

LEGGI I RACCONTI DI UMBERTO TANGHETTI PUBBLICATI SU BSNEWS.IT A QUESTO LINK

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