🔻 Suburbia Lamarmora 🔺DAL GRUPPO G9

Dopo la seconda guerra mondiale a Brescia, come altrove, molte case erano distrutte e alla mancanza delle abitazioni, per coloro che erano rimasti, si aggiungeva la carenza di lavoro...

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Nucleo denominato “Case Fanfani” Foto di Berardi Gloria

di Gloria Berardi – Dopo la seconda guerra mondiale a Brescia, come altrove, molte case erano distrutte e alla mancanza delle abitazioni, per coloro che erano rimasti, si aggiungeva la carenza di lavoro. I “Piani Fanfani” gestiti dall’ente INA Casa, con lo scopo di incrementare l’occupazione attraverso l’espansione edilizia, configurarono il nuovo aspetto delle città italiane del secondo dopoguerra, in un quadro inserito nel Piano Marshall.

I “Piani Fanfani” non puntarono sull’ammodernamento dei criteri della pratica edilizia, ma sull’assorbimento della mano d’opera, lo sfruttamento delle risorse materiali locali, lo sviluppo di imprese medie e piccole e la salvaguardia del libero mercato fondiario. La conseguenza fu che nessuna seria politica urbanistica fu possibile se non quella apprezzata dalla speculazione edilizia. Verranno così realizzate delle “oasi di ordine”, organizzando lo spazio individuale e collettivo secondo un modello urbano e sociale tipico dell’ impostazione dei coevi quartieri scandinavi: ordinate zone protette lontane dal centro storico e dai quartieri borghesi. I quartieri INA a Brescia verranno cioè costruiti lontano dal centro storico, sostituendo ampi settori di campagna con aree cementificate, nuove strade e cavalcavia, che spesso rimarranno incompleti per anni in attesa della espansione edilizia speculativa. Sono i quartieri Lamarmora, Badia, Chiusure e i vari Villaggi detti “Marcolini”, che delimitano in periferia l’espansione della futura città del boom economico.

Ho abitato, dal 1959, cioè dall’età di quattro anni, nel quartiere Lamarmora e ho ancora vivo il ricordo di quel mondo isolato. Per raggiungere il centro si prendeva la “filovia”, sostituita dal 1967 con gli autobus sull’onda dell’utilizzo massivo del petrolio, e si attraversavano campi ancora coltivati. Non sembrava di vivere in una città, ma in un paese vicino. Per il quartiere di Lamarmora, la scelta della zona era stata già fatta nel 1939, quando lo IACP di Brescia acquistò per 8 lire al mq un’area circa 29.000 mq a sud della stazione ferroviaria, attraversata dal vaso Codignole, fiancheggiato dall’omonima strada. Già nel 1930 la strada consortile dei Pilastroni, che nasceva dalla Casa di Salute Fatebenefratelli, era stata intitolata ad Alessandro Lamarmora, generale fondatore dei corpo dei Bersaglieri, che diede poi il nome all’intero nuovo quartiere.

Nel dopoguerra verranno edificati qui i vari blocchi di case di edilizia economica popolare, con alloggi destinati ad ospitare abitanti di provenienze diverse, come i contadini giunti in città per offrire manodopera nella costruzione, famiglie arrivate a Brescia dal sud Italia e profughi istriani. Si partì nel 1947, con la costruzione dei primi sei condomìni, il nucleo “Bettinzoli”, in onore di Mario Bettinzoli, capo di una delle prime bande partigiane operanti in Valsabbia, catturato dai fascisti e fucilato nella caserma “Randaccio”.

Nell’anno successivo sorsero le “case rosse”, il nucleo “Perlasca” (a ricordo di Giorgio Perlasca, cui si deve la salvezza di 5000 ebrei ungheresi nel 1944), con la elevazione di 9 nuovi fabbricati per un totale di 393 alloggi pari a 1.798 vani.

Quanto alla toponomastica, quindi, le vie del quartiere furono dedicate a protagonisti della lotta partigiana, con intitolazioni equamente distribuite fra gli appartenenti alle formazioni delle Fiamme Verdi e delle Brigate Garibaldi: lo spirito della Resistenza era molto vivo, all’indomani del conflitto. Per servire questo quartiere, ancora molto distante dalla città, verrà realizzato, lungo la via Lamarmora, un edificio “a pettine” destinato a servizi di base.

Furono aperti pochi negozi: una latteria, un fruttivendolo ed un panificio, ma, soprattutto, una cooperativa di consumo che risultò fondamentale per soddisfare le necessità primarie degli abitanti del quartiere. Le famiglie non possedevano un frigorifero, passava il “giasaròl” che con il suo carretto trasportava stecche di ghiaccio, tagliate con un’ accetta e conservate nelle ghiacciaie delle cucine.

La Chiesa e l’asilo furono ricavati, fino alla metà degli anni ’50, nel cortile e nelle stanze di una casa colonica: in seguito saranno inaugurate la nuova scuola elementare “Angelo Canossi” e la chiesa parrocchiale, dedicata a San Giacinto: spazi fondamentali per la vita sociale del quartiere. Completeranno il quartiere il nucleo denominato “Case Fanfani”, edifici costruiti nei lotti a sud e a nord della scuola elementare, e i portici fronte strada, su via Lamarmora, dove è ancora affissa una targa a ricordo di uno degli architetti più impegnati nella realizzazione del quartiere, l’architetto Vittorio Montiglio Taglierini.

Per le famiglie che abiteranno in queste “isole”, o quartieri-ghetto, la vita quotidiana non era facile. I nuovi alloggi, composti da cucinotto, bagno, camera dei genitori e camerette dei figli, erano privi di riscaldamento, ma provvisti di canna fumaria per stufe a gas: erano edifici concepiti in bassa economia e con poche concessioni alle comodità e all’estetica architettonica.

Se queste case popolari costituiranno comunque per molti un enorme miglioramento delle condizioni abitative, la maggior parte degli abitanti del quartiere affronterà le difficoltà del vivere vicini, in edifici plurifamiliari, condividendo gli spazi comuni (pianerottoli, scale, atri, cortili, giardini e cantine), talvolta fonte di disagi e conflitti.

Le costruzioni avevano un numero medio di piani, che rappresenta un compromesso fra la casa alta e bassa: prive di ascensori, si elevavano al massimo su cinque piani, per non gravare sul costo di costruzione. Per sfruttare al meglio i lotti di terreno, non si edificarono i corpi abitativi organizzandoli intorno ad un cortile interno, ma come blocchi lineari a più piani e vicini tra loro: involucri compatti, composti da cellule replicate più volte.

Tra le case fu creato un parco centrale, ora Parco “Italo Nicoletto” (antifascista, partigiano e poi deputato del PCI), a sud del quale, in un’area ora denominata “parco Michele Zorat”, era presente il lavatoio pubblico, un edificio coperto e dotato di dodici vasche in cemento a getto continuo di acqua.

Qui come altrove il modello architettonico dei progetti del piano INA-Casa fu il Neorealismo, che voleva cogliere tradizione e identità con lo scopo di creare un ambiente adatto a un nuovo modo di abitare la città. Finalità del progetto erano controllare la crescita della città, in quanto il quartiere veniva dotato di servizi e di strutture che non gravassero sul centro cittadino, limitare l’abusivismo residenziale e produrre nuove forme dell’abitare che differenziassero ogni zona dall’altra.

Per uniformare gli interventi urbanistici di questo tipo, piuttosto numerosi in tutt’Italia in quegli anni, si decise di far apporre, su tutti gli edifici realizzati, una targa in ceramica policroma, che alludesse al tema del progetto o, più in generale, alla casa come luogo felice; una sorta di “marchio” posto in corrispondenza degli ingressi o in punti focali dell’edificio. Per queste formelle in ceramica furono indetti dei bandi di concorso rivolti ad artisti e aziende ceramiche: esse sono una testimonianza delle contemporanee ricerche su forma e colore dei movimenti artistici del Novecento.

Nel quartiere ci sono sempre stati molti bambini di ogni età e provenienza, che, come me, si trovavano nei giardini e nel periodo estivo giocavano fino a tarda sera. Anche i campi vicini erano luoghi di scorribande e nascondigli, anche se pochi di noi avevano la bicicletta. Vicino all’ asilo per l’infanzia, gestito da suore, fu aperto un cinema di quartiere (ora è un negozio di ferramenta), dove, alla domenica pomeriggio, si proiettavano film per ragazzi dopo il catechismo e per gli adulti la sera. Adiacente c’era il “Circolo Acli” frequentato prevalentemente da anziani, dove si giocava a carte e si poteva consumare una merenda con un calice di vino, uova sode e formaggio. Non mancava poi un bar con il gioco delle bocce, non distante dall’ambulatorio del medico condotto ed da una bottega di calzolaio, poi negozio di scarpe per tutto il quartiere. Vicino a questo fabbricato si ergeva una torre piezometrica in cemento utilizzata come riserva per garantire l’acqua a tutto il quartiere.

Quartiere che non ha perso nel tempo la sua vocazione di luogo di integrazione: oggi molti alloggi sono stati occupati da famiglie che esprimono un nuovo mix sociale, molti sono i piccoli proprietari che, ristrutturando gli appartamenti che ancora conservavano l’impianto originale, hanno contribuito alla salvaguardia di un patrimonio edilizio appartenente alla storia bresciana e italiana.

Anche oggi come un tempo lo spazio pubblico ed il verde non sono “terra di nessuno”, ma sono vissuti e rispettati come spazio della collettività. Infatti nell’attuale parco “Italo Nicoletto” sono ritornate le voci dei bambini e dei ragazzi, oggi di varie etnie, come occasione di contatto tra diverse culture.

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ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9

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