🔻 Le battaglie di Lattanzio 🔺DAL GRUPPO G9

Ancora oggi dopo mezzo millennio, c’è un angolo di Brescia che, carico di storia, rischia di passare inosservato, se non alziamo gli occhi da terra o dalle solite vetrine dei negozi

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Ludovico Beretta, lato nord di Piazza del Mercato, foto Laura Giuffredi

di Laura Giuffredi – Ancora oggi dopo mezzo millennio, c’è un angolo di Brescia che, carico di storia, rischia di passare inosservato, se non alziamo gli occhi da terra o dalle solite vetrine dei negozi.

La via in questione è l’attuale Corso Palestro, già Corso del Gambero, che si formò a partire dalla metà del Quattrocento, quando le mura della vecchia cinta medievale, costruite alla fine del XII secolo e ormai inutilizzate da tempo, vennero spianate. Questa demolizione e il riempimento del relativo fossato portarono alla formazione di una lunga striscia vuota su due livelli, che con il tempo venne variamente urbanizzata, lasciando libera una via di passaggio, grosso modo quella che ancor oggi percorriamo.

In particolare gli interventi quattro-cinquecenteschi puntarono alla soluzione di questo nodo urbano irrisolto, con l’obiettivo di razionalizzarlo e riorganizzarlo formalmente.

La sistemazione a doppio livello tra la piazza del Mercato e la via sottostante (attuale corso Palestro) e la definizione dell’incrocio tra quest’ultima e via Larga (oggi via Gramsci) fu risolta con l’inserimento di edifici a destinazione commerciale e residenziale di inedita organizzazione tipologica, progettati tra il 1552 e il 1558 dall’architetto Ludovico Beretta: le cosiddette “case del Gambero”. Il progetto incluse la sistemazione porticata della piazza e la scalinata di raccordo presso la chiesa di Santa Maria del Lino.

Da notare come il nitore e la razionalità di queste abitazioni berettiane (realizzate effettivamente solo in parte) furono assunti come “precedente” dell’intervento novecentesco di Marcello Piacentini su piazza della Vittoria, legittimandolo. Anche per questo le abitazioni affrescate non caddero, per fortuna, sotto il “piccone demolitore” del Ventennio, come invece fu per l’adiacente Quartiere delle Pescherie, tra le nostre case e piazza della Loggia.

In particolare nel 1932 (alla vigilia dell’avvio del grande cantiere piacentiniano), suscitò interesse lo stato di conservazione degli affreschi di Lattanzio Gambara, “esposti a gravi pericoli” sulle pareti esterne delle case berettiane.

L’interesse si tradusse nello strappo e sistemazione su pannello mobile di alcuni riquadri dipinti, che vennero traslati nella Pinacoteca Tosio-Martinengo (ma già nell’Ottocento i primi riquadri di quel ciclo erano stati rimossi e sistemati in museo): lo scopo era salvare le scene meglio conservate nell’idea, allora diffusa, che solo la museificazione potesse garantire la sicura tutela di opere ritenute più rappresentative di altre. I dipinti rimasti in loco furono oggetto nel tempo di sommari interventi di consolidamento e restauro, ad opera di Romeo Seccamani nel 1992, e di Daniela Campagnola nel 2007 (lavoro quest’ultimo finanziato da Caratti srl).

Nel ciclo dipinto si lascia ispirare dai noti cicli rinascimentali romani e fiorentini, di cui imita la maniera: vi domina un groviglio di corpi muscolosi, panneggi, cornucopie, armi sguainate, destrieri e carriaggi, che oggi a fatica distinguiamo nei colori impalliditi sugli intonaci consunti. Eppure quel che resta ci dà comunque l’idea di una serie di scene di notevole impatto: colori vivaci e masse tumultuose in movimento dovevano far alzare la testa per goderne con stupore ed ammirazione. Secondo Alessandro Sala, restauratore a Brescia all’ inizio del ‘900, raffiguravano: Scipione e Asdrubale (scena che qualche storico attribuisce al Romanino), Dalila, Giuditta, i due Aiaci, la Vergine Tullia, il ratto delle Sabine, Curzio Marco Tullio, Lucrezia moglie di Collatino, Muzio Scevola, Romolo I re di Roma, Orazio guerriero romano, Didone, il trionfo di Bacco, il trionfo di Venere, il trionfo dei Satiri, Lattanzio e Margherita (ispirandosi al soggetto di Apollo che ritrae le sembianze della sua diletta Campaspe).

Per seguire le gesta di tutti quanti ci sono molto mito, molta Storia romana e l’intero Antico Testamento da ripassare!

Il gusto manierista del pittore, cresciuto alla scuola di Giulio e Antonio Campi, che a quanto sembra, scoprendone il talento, lo sottrassero alla violenza del padre, (“mastro Ludovico Tamburino de Bosis, da Gambara, sartore” fu addirittura bandito dalla città), ben si esprime in questi come nei tanti altri dipinti che il pittore lasciò in dimore private e palazzi pubblici bresciani.

La commessa municipale per le Case del Gambero era stata in verità affidata a Romanino, ma questi, che  nel 1556-57 aveva dato in sposa a Lattanzio la figlia Margherita, passò il lavoro per quegli affreschi esterni al genero, che eseguì ben 48 scomparti: essi rivelano, come scrive Begni Redona, “ la portata rivoluzionaria della sua arte e della sua tecnica, unite ad una chiara visione di che cosa sia arte decorativa nella simbiosi di architettura e pittura, ove appunto la pittura smuove le masse statiche e conferisce loro un ampio respiro musicale”.

Consapevole del suo valore e della sua capacità d’artista, ma ricordato anche per il carattere caparbio e suscettibile, il pittore ebbe casa nell’attuale via G. Rosa, dove è stata posta la seguente iscrizione: “Lattanzio Gambara / i cui stupendi affreschi ornano tanta parte di Brescia / possedette e abitò questa casa /. M. nel 1574”.

Va ricordato che nel 1568, otto anni dopo che il nostro pittore ebbe finito di affrescare anche le bellissime quattro vele del cavalcavia di Palazzo Broletto con scene dell’Apocalisse (polverizzate dal bombardamento del 13 luglio 1944), giunse a Brescia Giorgio Vasari, e scrisse che il Gambara aveva oscurato talmente la fama del Romanino da farne dimenticare persino il nome.

Nonostante ciò, non c’è un lieto fine, povero Lattanzio! Lavoratore instancabile e prolifico (si era scelto come motto  “Indefesso labore”), veloce nello stendere intonaco a giornate e nel dipingere scene coloratissime di glorie passate, nel 1573 intraprendeva nella chiesa di S. Lorenzo a Brescia un nuovo lavoro, durante il quale, nel 1574, incontrava la morte a soli 44 anni, cadendo da un’impalcatura, secondo qualcuno per disgrazia, secondo altri per “criminoso attentato”, forse da parte di detrattori o invidiosi concorrenti.

Procurarsi lavoro, per un artista, non era facile, conquistare committenti che, soddisfatti, pagassero puntualmente, ancora meno; la concorrenza era feroce e il lavoro sui ponteggi sfibrante.  Ma la vitalità e l’energia che rivelano ancora gli affreschi di corso Palestro confermano il piglio sicuro di un artista che nel secondo Cinquecento seppe ben interpretare, tra Brescia e provincia, ma anche a Parma, Trento, Padova, Trieste… (molte le opere testimoniate, ma poi disperse o distrutte), la “maniera” dei grandi con sicura e disinvolta convinzione.

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ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9

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