🔻 Il Garda scoperto da Michel de Montaigne e Albrecht Durer | 🔺DAL GRUPPO G9

A 47 anni Michel Eyquem de Montaigne compie il viaggio della sua vita, Le voyage en Italie, subito dopo aver pubblicato i primi due volumi di Essais (Saggi)...

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Durer, Veduta di Trento, particolare (foto da G9)

di MARIO BALDOLI A 47 anni Michel Eyquem de Montaigne compie il viaggio della sua vita, Le voyage en Italie, subito dopo aver pubblicato i primi due volumi di Essais (Saggi).

Era nato nel 1533 presso Bordeaux, nel Castello di Montaigne, ereditato dal padre, aveva svolto un’intensa carriera da magistrato vivendo a Parigi molto vicino alla Corte finchè all’età di 38 anni si era dimesso da ogni incarico per ritirarsi nel suo Castello a leggere, meditare e scrivere muovendosi nella sua biblioteca ricca di 5.000 volumi.

Il 22 giugno 1580, lascia il Castello accompagnato da quattro amici, dal segretario e dai servi, per intraprendere un viaggio dall’itinerario irregolare verso l’Italia. Prima si reca a Parigi a presentare i suoi Essais a Enrico III, poi partecipa all’assedio di La Fère, infine raggiunge Plombières e Baden per “passare le acque” dato che soffre di mal della pietra. Poi entra in Germania: Lindau, Augsburg, Monaco, infine Innsbruck, il Brennero e l’Italia.

Come gli Essais, anche il suo diario di viaggio è irregolare: inizia il 15 settembre quando la comitiva è ancora in Francia, ed è scritto da un anonimo segretario fino ai primi giorni a Roma (fino al Martedì Grasso del 1581), poi è continuato da Montaigne stesso, benchè si lamenti dell’incombenza.

Entrato in Italia, Montaigne si ferma a Rovereto dove sente parlare molto bene del lago di Garda famoso in quelle contrade e dal quale proviene un ottimo pesce, e con due amici raggiunge Torbole.

Scrive il segretario: Piccolo villaggio nella giurisdizione del Tirolo e sito all’estremità di quel gran lago; all’altro capo di questa estremità c’è una cittadina con un castello chiamata La Riva. Qui si fecero portare sul lago, per cinque miglia all’andata e altrettanto al ritorno, e fatto il percorso con cinque rematori in tre ore e mezzo circa (…) A valle la distesa del lago appare infinita, la sua lunghezza essendo di 35 miglia e la sua larghezza prendeva quel che il loro occhio poteva scoprire (…) Da una parte e dall’altra, tutto il territorio appartiene alla signoria di Venezia: vi sono molte belle chiese e da per tutto oliveti, aranceti ed altre simili piante da frutto. Il lago va soggetto a terribile e furiose burrasche quando c’è tempesta.

Raccontarono i signori che il contorno del lago è costituito da montagne più desolate e aride di quante ne avessimo viste lungo tutto il viaggio; che partiti da Rovereto avevano passato il fiume Adige e lasciata a sinistra la strada di Verona, ed erano entrati in un fondovalle dove avevano incontrato un lunghissimo villaggio e una cittaduzza [Mori e Nago]; ch’era il percorso più aspro e il panorama più selvaggio che mai avessero visto, a causa di quelle montagne che sbarravano il cammino.

La grande virtù di Montaigne è accettare le cose come sono, come tante facce dell’uomo, vedere gli altri dal punto di vista degli altri, rifiutare certezze, mostrare quanto la nostra mente sia frammentata e mutevole, i valori incerti a secondo dei luoghi, delle persone e nel tempo. È quindi un antropologo ante litteram tanto che Lévi-Strauss ha scritto un piccolo libro su di lui Da Montaigne a Montaigne, ed. Cortina 2020 celebrando il relativismo del suo pensiero, che si applichi ai cannibali, alle poste, al cibo, alla propria calcolosi renale. È attento ai dettagli: come funziona uno spiedo, come certi giochi d’acqua producono sinfonie, l’astuzia di migliaia di cortigiane alle finestre a Roma.

Amava i viaggi. Di lui scrive il segretario: Usava dire che dopo una notte agitata, quando al mattino si ricordava d’aver a visitare una città o una contrada nuova, si levava pieno di desiderio e d’allegrezza. Non lo vidi mai stanco, né mai si lamentò così poco dei suoi dolori; il suo spirito era tanto preso dall’interesse per quel che vedeva – così come non si lasciava sfuggir un’occasione per parlare con gli stranieri- che questo credo lo distraesse dal suo male. Quando ci si lagnava con lui perché guidava sovente la brigata per svariate strade e paesi, spesso tornando assai vicino al punto di partenza (…) rispondeva che per conto suo non andava se non là appunto dove si trovava, che per lui era impossibile sbagliare o allungare la strada, non avendo egli altro progetto se non di girare per luoghi sconosciuti (…) Diceva pure che gli pareva d’esser come quelli che leggono un racconto piacevole oppure un bel libro, e son presi dal timore che abbia ben presto a finire; così lui portava un tal piacere a viaggiare, che l’approssimarsi del luogo dove doveva riposare gli era odioso, e faceva spesso il progetto di viaggiare a suo talento , se gli venisse fatto d’esser solo.

Albrecht Durer

Albrecht Durer è uno dei più grandi pittori del Rinascimento ed un antesignano dei viaggiatori che da nord scesero in Italia alla ricerca della grande arte, a differenza dei suoi compatrioti che si spostavano nei Paesi Bassi soprattutto per imparare la tecnica della pittura ad olio.

Durer fuggiva così la peste e si liberava di una moglie che detestava, era il 1494.

Quel viaggio è per lui l’entrata in un mondo nuovo, “riscopre” la natura e la fa splendere in delicati acquarelli in cui predominano i toni azzurri e sfumati al di là del rigore del gotico. Studia i maestri Mantegna, Pollaiolo, Bellini (con cui entra in contatto) e Leonardo. Prende coscienza del valore della prospettiva, della proporzione e dell’armonia.

Al ritorno, nel maggio del 1495, si ferma ad Arco dove, forse nel più suggestivo dei suoi acquarelli, ora conservato al Louvre, ritrae con mirabile precisione il Castello, l’ambiente ed il villaggio sottostante, gli elementi identitari che lo caratterizzano. I declivi che fanno da corona alla rupe scoscesa scivolano nel verde degli olivi e nel colore caldo della terra coltivata. L’opera oltre il monogramma dell’autore porta la scritta “Feedier Klawsen”, ovvero “Chiusa veneziana”, testimoniando la situazione territoriale e politica che vedeva Arco come l’ultimo avamposto del Principato Vescovile verso il Garda, ormai interamente racchiuso entro i confini della repubblica di Venezia. A più di cinquecento anni di distanza, la luce che inonda la vallata brilla ancora col tono dorato che Durer ha consegnato alla storia.

A Trento dipinge vari acquarelli che colpiscono per la luminosità e l’armonica coerenza del paesaggio, le delicate sfumature tonali, il senso della misura, mentre gli accostamenti cromatici e la pittura di getto, li rendono vivi.            

Nell’autunno del 1505 Durer tornò in Italia, a Venezia fu il maggior periodo di creatività e di successo. Ricevette varie commissioni, la sua pala d’altare La Madonna del rosario scoppia di una luminosità di colori: le figure, a grandezza quasi reale, sembrano staccarsi dalla tela, i volti sono pieni di venerazione e adorazione, gli angeli fanno dialogare musica e pittura. La Madonna che tiene in grembo Gesù è una donna ideale, dolce e raccolta, a destra, appoggiato a un albero, si vede l’artista. La prospettiva è geometrica e la struttura è quasi triangolare, secondo l’uso italiano. Esplodono i rossi, i verdi, gli azzurri, mentre le montagne sono sfumate sul fondo.

Il grande dipinto segna il passaggio dal mondo medioevale gotico a quello rinascimentale. È l’inizio della seconda maniera pittorica dureriana

La divisione in piani prospettici e la simmetria triangolare delle figure conferiscono al quadro una certa monumentalità. Il successo fu enorme, il doge Leonardo Loredan gli propone di diventare il pittore della Repubblica con 2000 ducati all’anno. Durer rifiuta. Quell’anno fece anche con una puntata a Firenze per conoscere i grandi del Trecento.

Nel febbraio del 1507 torna a Norimberga. Due anni dopo, vecchio e in povertà, va in Olanda con la moglie e un’ancella portando con sé i quadri da vendere. Muore il 5 aprile del 1528.

Durer, veduta di Arco, particolare (foto da G9)

L’AUTORE DELL’ARTICOLO: MARIO BALDOLI

Mario Baldoli, laureato in filosofia, giornalista, direttore responsabile di “Tuttogarda” (2004-2005), periodico della Comunità del Garda. Dal 2009 è direttore della rivista online www.gruppo2009.it, e redattore della rivista “Atlante bresciano”. Due suoi saggi sono alla Library of Congress Washington.

ARTICOLO A CURA DEL GRUPPO G9

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