🔻 A Brescia trovo la felicità, Brescia è misteriosa in modo tutto suo | 🔺DAL GRUPPO G9

"Occorre dire che io non sono venuto qui per conoscere l’Italia, ma per essere felice? Lo sono e di gran cuore con queste persone che non si prendono per pezzi grossi, non sono posatori ed esibizionisti. In una compagnia simile a quella del caffeuccio di Brescia, la capacità di godere, e quasi senza misura, rende capace di gioia anche me"

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James Jono, Eugène Martel, Public domain, via Wikimedia Commons

di MARIO BALDOLI Corre l’anno 1951 quando Jean Giono, nato a Manosque nell’alta Provenza, poeta, romanziere e saggista, decide di venire in Italia spinto da suggestioni familiari e dagli scritti di Stendhal. Tranquillo, solitario, amante della natura, con una casa su una collina isolata, Giono ha già scritto una delle sue bucoliche più conosciute in Francia: L’uomo che piantava gli alberi, breve romanzo che fu pubblicato in Italia con molte illustrazioni, tra cui una di Tullio Pericoli.

Nel 1932 L’ussaro sul tetto, il suo capolavoro diventa un film nel 1995 con Juliette Binoche, Olivier Martinez, Claudio Amendola. Con l’Ussaro siamo nel Risorgimento italiano: il protagonista Angelo Pardi fugge da Torino dopo aver ucciso una spia austriaca: il mondo risorgimentale che appare anche in altri suoi romanzi. Ad essi si sono ispirati vari film, tra cui Jean le Bleu che uscì nelle nostre sale col titolo La moglie del fornaio (1938) diretto da Marcel Pagnol, di cui scrive il dizionario Morandini: “bellissimo film agreste che fa macchia nel cinema francese dell’epoca per il suo solare calore mediterraneo, l’ammirevole fusione di ironia e compassione, precisione realistica e folclore pittoresco. Pagnol è maestro dell’uno e del multiplo”. Le chant du mond (1965), diretto da Marcel Camus con Catherine Deneuve, e alcuni altri.

La pigrizia si dichiara nella prima riga di Viaggio in Italia, Fogola editore 1975, (trad. di Maria Dazzi, introduzione di Luigi Bàccolo): Non sono un viaggiatore, questo è certo: per più di cinquant’anni mi sono appena mosso, niente di più.

Il suo viaggio è dei più convenzionali: Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze. Già al confine è conquistato dal sapore dell’Italia: Nella casetta dove il gendarme ha i suoi timbri, la stufa ronfa. Basta l’alito caldo sulle ginocchia gelate per fare scaturire immediatamente la simpatia. Non mi è mai andato a genio un rappresentante dell’ordine quanto questo. Mi piacerebbe che incominciasse a interrogarci, un bell’interrogatorio con molti particolari (..) Sua moglie è graziosamente intenta a lavorare ai ferri davanti alla finestra, accanto alla stufa. È una bella fortuna essere la moglie di un gendarme e sferruzzare…

Ma nella convenzionalità del Viaggio, c’è un’eccezione: è Brescia. Ad essa dedica 24 pagine su 193 (ed. Fologa). Vi arriva in macchina con la moglie Elise e un’altra coppia. C’è in lui qualcosa che va oltre l’entusiasmo esotico: il nonno piemontese e carbonaro, chissà quante teste ha gentilmente tagliato. La mamma pure di origine piemontese, quindi stretti amori con l’Italia e affetto per la nostra letteratura, tanto da tradurre l’opera di Machiavelli e usare nomi italiani nei suoi romanzi e saggi.

Il Viaggio è fitto di osservazioni a volte spicciole, ampie evocazioni storiche, giudizi sulle persone e le città, spesso con un taglio antropologico. È deluso da Milano. Tra il Duomo e corso Vittorio Emanuele alle due del pomeriggio: è il posto più spiacevole della terra. E poi vi è quel Duomo che non vale una caccola di coniglio.

Le due coppie arrivano a Brescia in una sera buia. Subito Giono pensa con qualche dubbio a Henry Beyle (non ancora divenuto Stendhal) secondo cui Brescia è la patria delle donne che hanno gli occhi più belli d’Italia.

Loro invece: in piena notte prendiamo d’infilata una stradina e sbuchiamo in una piazza. Qui è il colmo dell’irreale. Ci fermiamo di colpo. Nessun vivo in circolazione (erano le otto di sera). Merde, dice Antoine.

Sotto le luci bianche, vuota, la città gli pare una romantica abbagliante scenografia. I volumi sono appiattiti, finchè a poco a poco arriviamo al centro dell’azione e ritroviamo la luce bianca del I atto, prima di entrare nel palcoscenico principale, nello scenario di una grande piazza del XVI e insieme del XX secolo (…) tutto intorno alla piazza abbagliante di luce fredda, corrono i portici sotto i quali passeggiano uomini e donne, i coristi, indubbiamente. Proprio sulla piazza un centinaio di persone impavide, immobili o che accennano a un movimento lentissimo di passeggio, aspettano, è chiaro, la bacchetta del direttore. Forse è proprio per colpa nostra che la rappresentazione non incomincia.

La coppia chiede informazioni, passa sotto un portico a volta. La parte ad archi è delicatamente buia, è animata come un acquario di notte, da grandi pesci indolenti. Quando entrano in albergo si trovano in uno scenario familiare, quello del II atto, scena II dell’Amleto: una sala nel castello (…) Qui le case hanno una specie di eroismo popolare. Non ho mai visto l’uguale se non a teatro. Una città in cui si arriva di notte è facile che sia misteriosa: questa lo è in modo tutto suo.

La sera finisce in una trattoria dove ci fanno magnifiche bistecche alla griglia e pasta asciutta. Il vino è squisito. Entrano due ciclisti che appoggiano la bicicletta contro il muro e incominciano subito a giocare a ramino.

Dopo altre osservazioni sui negozi di piccoli artigiani, vede le donne “graziose”, gli uomini che fumano piccoli sigari acri sul cui sapore un bicchiere d’acqua fresca è una benedizione del Signore. Alle sei del mattino, lasciata la moglie a dormire, è già in corso Zanardelli. Due pagine decisamente comiche sono dedicate al caffè e alla macchina che produce l’espresso: due ragazze gli civettano davanti con l’ardore di una vivissima passione. Una tortoreggia e manda gridolini molto intimi. La macchina sfiata sibili, singulti e lanci di vapore, ci spaventiamo tutti i e tre. Il fornaio arriva con le sfogliatine. Entra un tizio con un cane. Perché il cucciolo non si raffreddi le zampe sullo zinco del banco, gli si è messo sotto un tappeto di tovagliolini di carta. Ho ascoltato episodi di quel cucciolo che era un vero romanzo di re Artù a proposito della madre e del padre (del cucciolo). Ne è conquistato.

Occorre dire che io non sono venuto qui per conoscere l’Italia, ma per essere felice? Lo sono e di gran cuore con queste persone che non si prendono per pezzi grossi, non sono posatori ed esibizionisti. In una compagnia simile a quella del caffeuccio di Brescia, la capacità di godere, e quasi senza misura, rende capace di gioia anche me. Entro nel cortile del Broletto e per venti minuti sono felice, senza una ragione ben determinata. È un luogo dove si prende la felicità come in altri si prende la peste. (…) Ho tempo: è un piacere immenso, per me, il tempo che perdo. Mi figuro di abitare a Brescia, di prendere una boccata d’aria prima di mettermi al lavoro. A questo punto l’ironia si fa beffe dell’enfasi: Colloco la mia biblioteca e il mio tavolo al secondo piano di una bella casa sulle cui finestre viene a posarsi il dolce sole. Dietro le tende di un piccolo caffè, una inserviente non mi perde d’occhio. Si domanda certo che cosa aspetto o che cosa cerco. Su questa piazza vi sono due fontane deliziose, una si chiama Brescia Guerriera. È una specie di Pallade con l’elmo in capo, ma paffutella e ben dotata di attributi che qui chiamano vantaggi. Tutto il quartiere adiacente al Castello è sereno e parla di umanità. In piccole botteghe i falegnami piallano assai, i calzolai cantano, i fabbri limano delicatamente il ferro con un brusio di cinciallegre. Le massaie scambiano due chiacchiere sulla soglia di casa. Poco dopo tutto quel piccolo mondo recita la commedia per me e io capisco: i commenti che gli artigiani fanno a voce alta alle donne hanno lo scopo di farmi intendere che qui esiste la felicità più autentica e più pacifica. Al contrario dei popoli nordici, l’italiano quando è felice lo sa. È difficile prevedere in piena città il fascino della stradina che va al Castello: è un sentiero di campagna. L’edera, il muschio, la pimpinella coprono i muri dei giardini che traboccano di lacche del Giappone, di tigli e di lecci. Segue la descrizione di Brescia vista dal Castello: una magra città molto ristrettamente cintata dai suoi baluardi (…) colline di bell’aspetto abitate da gente che sa fare orti e giardini. Sui fianchi soleggiati delle colline, è in atto tutta la scienza delle terrazze a muriccioli di pietra a secco.

Poi la nostra coppia si avvia a Desenzano, quando a pochi km da Brescia incontra Villa Fenaroli, una delle più belle d’Italia. Penso a Poe. Ciò che la villa Fenaroli dice è severo, austero. Sorge sul fianco destro di una collina interamente coperta di lecci. Il fogliame di questi alberi è quasi nero: lo hanno reso ancora più cupo aggiungendovi, e con ordine rigoroso, bellissimi cipressi.

Il “diario” di viaggio continua, a Rezzato a Lonato al lago di Garda: Non si può disconoscere al lago di Garda (come al mare, del resto) un potere eccitante (…) il lago sarebbe anzi un pochino superiore al mare, fa più intellettuale. A Peschiera si perde in alcune pagine di evocazioni storiche delle guerre di Indipendenza, infatti Peschiera, bello e forte arnese, come scrive Dante, era una munitissima fortezza del quadrilatero austriaco. Di nuovo la serietà della storia cede all’ironia: Mentre il general Govone assaliva le fortezze “secondo le regole”, i contadini facevano in quelle zone una guerra di interesse alle diligenze e persino ai gruppi a cavallo. Uccidevano per paura e specialmente per timidezza (…) il nonno di uno dei miei amici pare se la sia cavata dalle grinfie di quei filosofi con parole simili a quelle di Sherazade. Essi avevano cominciato a premere sul grilletto molto duro dei vecchi fucili a pietra focaia quando lui pronunciò poche parole in cui vi era qualcosa di simile all’inizio di una storia. Quelli sollevarono i fucili e gli chiesero come andava a finire. In fondo quei timidi si annoiavano, cercavano di distrarsi più che di depredare, uccidere doveva dar loro una scossa maledettamente bella.

Per Giono ogni luogo d’Italia è un mondo diverso. Ciò che vede stimola la sua sensibilità, gli rimbalza storia e letteratura. Giono ha la sensibilità di Goethe: si lascia riempire dai luoghi, non si impone ad essi, così si deve viaggiare, è il loro insegnamento.

L’AUTORE DELL’ARTICOLO: MARIO BALDOLI

Mario Baldoli, laureato in filosofia, giornalista, direttore responsabile di “Tuttogarda” (2004-2005), periodico della Comunità del Garda. Dal 2009 è direttore della rivista online www.gruppo2009.it, e redattore della rivista “Atlante bresciano”. Due suoi saggi sono alla Library of Congress Washington.

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