Per dipingere i vicoli incavati
con i bambini bruni mendicanti
non riesco a trovare il tono vero
e nemmeno a comporre un canto breve
capace di librarsi alto nel cielo.
Ranier Maria Rilke (1897)
di MARIO BALDOLI – Arco fu una cittadina molto povera fino a metà dell’Ottocento, senza industrie, col solo commercio dell’olio, del vino e della seta che rendevano pochissimo. Unica risorsa, il clima, mite e dolce anche d’inverno, riparato dai venti. Era la risorsa da sfruttare. Nel 1870 nacque la sua prima struttura: una tettoia addossata a sud ai muri del coro della Collegiata, esposta al sole anche d’inverno e a protezione dalla pioggia. Fu un’iniziativa che provocò una violenta reazione popolare, sedata dall’arciprete.
La fortuna di Arco fu l’arrivo due anni dopo dell’arciduca Alberto d’Austria che, incantato dalla bellezza del luogo, acquistò un vasto terreno dove costruire la propria residenza. Il suo arrivo indusse i cittadini più attivi ad avviare piccole industrie e ad acquistare terreni. In quell’istituto nacque il Kurort, il luogo di cura, a sud della chiesa parrocchiale, a ridosso della facciata della Collegiata: la “tettoia” del 1870 si affacciava quindi sulla “piazza della cura”. Ad Arco chiede un alloggio anche Elisabetta (Sisi), moglie dell’imperatore. Ormai i tempi erano maturi per l’industria del turismo. Il medico Marchetti trasforma la vecchia filanda Marcabruni nel primo hotel, l’Albergo Imperiale dell’Olivo: “unico per la cura”.
Nel 1872 un farmacista tedesco è presidente del “Comitato di cura di Arco” e tedeschi sono i titolari della “Libreria internazionale di Arco” che, oltre a reclamizzare il luogo nelle sue guide, si dedica anche al settore immobiliare.
Nel 1883 il Kurort occupò la villa arciducale a nord-ovest della “piazza della cura” in una magnifica posizione tra i colli e i boschi, in vista del lago, ma senza la forza dei suoi venti. Ormai Arco era diventata una località di villeggiatura alla moda.
Al Kurort si usavano soprattutto metodi naturali puntando sulla bontà del clima, poco umido e senza nebbia, protetto dal vento proveniente dal sud del lago, l’ora; quiete, ricca vegetazione, varietà di passeggiate e paesaggio mediterraneo circondato da monti si univano a concerti, riunioni, vari intrattenimenti.
L’alimentazione era semplice e locale: la cura dell’uva, del latte fresco, del siero, delle acque minerali. C’erano cabine singole per inalazioni di vapori aromatici, strutture per idroterapia, vasche da bagno, elettroterapia. Si raccomandavano passeggiate per ravvivare la circolazione e ricreare lo spirito, utili soprattutto alle “donne infelici”. Il punto di forza della cura era comunque il clima che irrobustiva, adatto alle malattie di petto, corde vocali, rachitismo scoliosi, disturbi cardiocircolatori, anemie, malattie nervose, convalescenze, epilessia e tubercolosi.
Un Eden immerso in una natura primitiva: la vegetazione spontanea di olivo e corbezzolo si univa alle piante esotiche importate dai proprietari, quasi tutti tedeschi. Il Kurort era una sorta di colonia tedesca dove però si godeva l’Italia delle “atmosfere” e – scrive Rilke- qui le cose guardano chi le guarda, lo fanno sentire una cosa tra le altre cose, sembrano rivelargli il segreto della vita.
Fu lì che nel 1897 arrivò da Praga la signora Sophie Entz, la civettuola madre di Rainer Maria Rilke, detta Phia, divorziata dal marito, poi ospite costante del Kurort. Per quattro anni intorno a metà marzo quando il clima era perfetto, il figlio la raggiungeva due settimane dopo l’arrivo, restava una ventina di giorni, residente prima a Villa Mantovani, poi a Villa Florida.
Rilke soffriva l’avvicendarsi delle stagioni, l’ambiente freddo e piovoso del nord della Germania, desiderava tranquillità, riposo, possibilità di concentrazione, aveva “esaurimenti nervosi” e una stanchezza che gli sembrava influenza e lo rendeva incapace di qualunque sforzo.
Ad Arco trovò il tempo e le condizioni favorevoli, per prendere appunti, scrivere qualche poesia, abbozzare capitoli di romanzi tra cui I quaderni di Malte Laurids Brigge.
I suoi versi misurano la difficoltà di trovare immagini linguistiche nuove per l’ambiente mediterraneo:
So una roccia grigia sul lago
Da androni profondi solcata.
Agli usci, lontana mia fata,
mi sembra ch’io debba ascoltare
della tua veste il frusciare,
nella grotta grigia sul lago.
So una grotta grigia sul lago
e intorno un silente giardino.
Di tra gli olivi far capolino
un tuo cenno gentile mi pare,
nella grigia rocca sul lago.
Oh valle ricca d’arie profumate!
Corron acque con mormorio leggero.
Oltre chiare colline ecco affiorare
paeselli che fumano pace,
solitari castelli.
E noi vaghiamo allora lungo l’acque,
senza fine, fanciulli sereni,
immersi in idilliaca libertà.
Si fa preghiera il volere selvaggio,
e il desiderio pura gratitudine.
Mulino
Stanco mulino intaccato dagli anni,
la tua ruota muscolosa esalta la quiete.
Da un fresco d’oliveti
la sera sta a guardarti.
Canzoni umane
ricanta assorto il torrente.
Tu tiri fin sopra le orecchie
Il tuo tetto rotto alle intemperie.
Grazie per avermi illustrato le rigogliose
meraviglie di Arco, mia cara!
A Mathilde Nora Goudstikker
Cinge con braccio d’amore
castelli solitari,
caldi giardini floreali
la risacca
lucente nel sole,
un tendersi al vento di vele
lontano, sullo specchio di zaffiro;
un quieto devoto ascoltare
sciacquii
dalla musica lieve.
Poi un pensiero scavato
Per una patria lontana
Nelle valli di Baviera,
un regalo inviato
da una solitudine straniera.
Per Bodo Wildberg
Vado in cerca di tutti i castelli
Da noi sognati- e vedo
Dietro piante dai fiori perenni
Sul lago discendere il vespro.
Le vele si gonfian vermiglie,
frusciano nella pace delle onde.
Tutti i miei sogni origliano
le notti, fiori profondi.
A Malcesine scrisse
Tutti i castelli che noi sogniamo
io vado a cercare- e vedo:
dietro alberi eternamente in fiore
cala la sera sul lago.
Le sue vele rosse si gonfiano,
frusciando nelle quiete delle onde-
tutti i miei sogni stanno ad ascoltare
profonde notti in fiore.
Stimoli che anni dopo lo portarono a immaginare e realizzare il rovescio di queste liriche: una poesia più dura, inesorabile (Soffici scrivendo di lui dice: feroce) che trasferisce la sua concezione dell’arte dall’estetica all’etica, nella quale la parola stenta ad affermarsi sulla melodia, come i colori si affermano sulla forma in Cézanne, i cui colori puri diventano la sua guida artistica.
Punto d’arrivo di cui scrive alla moglie da Parigi (24 giugno 1907): gli oggetti d’arte sono sempre un risultato dell’essere-stati-in-pericolo, dell’essere andati fino in fondo a un’esperienza, sin dove nessuno può avanzare oltre.
L’AUTORE DELL’ARTICOLO: MARIO BALDOLI
Mario Baldoli, laureato in filosofia, giornalista, direttore responsabile di “Tuttogarda” (2004-2005), periodico della Comunità del Garda. Dal 2009 è direttore della rivista online www.gruppo2009.it, e redattore della rivista “Atlante bresciano”. Due suoi saggi sono alla Library of Congress Washington.
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