Una luce per la dignità

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Un appello disperato, una angosciante richiesta di aiuto. Non ascoltarla significa
essere complici dei carnefici. Poche righe che danno conto di una situazione
drammatica. Quella dei 200 eritrei deportati nel lager di Braq, nel sud della Libia

UNA LUCE PER LA DIGNITA\’.
PORTIAMO UNA CANDELA DAVANTI ALLA PREFETTURA A BRESCIA (CORTILE DEL BROLETTO)
VENERDÌ 9 LUGLIO 2010 ALLE ORE 18,30
Organizzato da:
Movimento Nonviolento Brescia
Emergency – Gruppo di Brescia
Fondazione Guido Piccini per i diritti dell’uomo
Camera del Lavoro di Brescia

Libertà e diritto d\’asilo per 250 profughi eritrei deportati nel deserto Libico.

Fermiamo le violenze della polizia libica contro i migranti.

Rivediamo gli accordi Italia – Libia e fermiamo la politica dei respingimenti.

«Signore, signori, questo messaggio di disperazione proviene da 200 eritrei che
stanno morendo nel deserto del Sahara, in Libia. Siamo colpiti da malattie
contagiose, la tortura è una pratica comune e, quel che è peggio, siamo rinchiusi
in celle sotterranee dove la temperatura supera i 40°. Stiamo soffrendo e morendo.
Questi profughi innocenti stanno perdendo la speranza e rischiano la morte.
Perché dovremmo morire nel deserto dopo essere fuggiti dal nostro Paese dove
venivamo torturati e uccisi? Vi preghiamo di far sapere al mondo che non
vogliamo morire qui e che siamo allo stremo. Vogliamo un luogo di accoglienza
più sicuro. Vi preghiamo di inoltrare questo messaggio alle organizzazioni
umanitarie interessate».

“Ero praticamente arrivato in Italia. Ora sono qui, in questo buco sperduto in mezzo al Sahara e rischio di
finire nelle mani del governo del mio Paese, che mi torturerà e mi ucciderà” .
L’uomo parla dal centro di detenzione di Braq nel sud della Libia dove è stato spedito il 30 Giugno scorso
dalle autorità di Tripoli insieme ad altri 244 richiedenti asilo eritrei che stavano nel campo di Misratah.
Il suo nome non lo diremo perché chiama direttamente in causa il nostro governo.
E’ infatti un respinto (..).
Nel campo di Braq i respinti dall’Italia sono 11.
Se non fossero stati respinti illegalmente in mare oggi sarebbero al sicuro nel nostro Paese con un permesso
di soggiorno come rifugiati politici o per protezione internazionale.
“ Ci hanno detto che eravamo salvi. Ci avrebbero portato in Italia. Siamo saliti gridando dalla felicità.
L’equipaggio all’inizio era gentile. Ci hanno detto che saremmo finiti a Roma o a Milano. Dopo un po’ ci
siamo accorti che ci stavano mettendo troppo tempo. La nave si stava dirigendo verso Tripoli.
Ci siamo ribellati. Non volevamo tornare indietro. A un tratto hanno tirato fuori delle pistole elettriche e
hanno colpito alcuni di noi. Le donne urlavano. I bambini piangevano.
Gli italiani tenevano gli uomini sotto la minaccia dell’elettroshock.
Con la forza ci hanno caricato su una nave più piccola che è attraccata a Tripoli.
Sapevamo cosa ci sarebbe accaduto. Ci hanno poi portato in vari centri. Lì siamo stati identificati e picchiati.
Io e gli altri 10 siamo finiti a Misratah. Siamo rimasti lì un anno fino a giovedì scorso, quando ci hanno
caricati come capi di bestiame e ci hanno portati qui, in mezzo al Sahara”.
Fonte: Il Manifesto 6 Luglio 2010
Da tre giorni un rumore mi perseguita. È un rullare di ruote e uno sbattere, vibrare e cigolare di ferri. Con
uno sfondo sonoro di lamentazioni di uomini. L\’ho sognato anche stanotte. È il rumore delle deportazioni.
L\’esercito libico ha fatto irruzione nel carcere di Misratah all\’alba del 30 giugno, il giorno dopo la rivolta
degli eritrei. Molti stavano ancora dormendo. Li hanno portati via così, 300 persone circa, alcuni ancora
nudi, altri feriti dai pestaggi del giorno prima. E li hanno rinchiusi dentro due camion, dentro un container di
ferro, di quelli che si usano sui treni merci e sulle navi cargo. Quando, il pomeriggio del 30 giugno, sono
riuscito a contattarli al telefono, erano ancora dentro il container.
Il camion correva veloce sulla strada, e a ogni buca i ferri del cassone sbattere sul rimorchio. A. non parlava
inglese, ma quando ha sentito “Italy” ha passato il cellulare ad altri, borbottando qualcosa in tigrino. Così,
nel buio pesto del container, in quel forno che deve essere una scatola di ferro sotto il sole del Sahara,
riempito con 150 persone appiccicate una addosso all\’altra, passando di mano in mano, il telefono ha
raggiunto D.. Era l\’unico telefono sfuggito alle perquisizioni. L\’ultimo filo con il mondo esterno. D. parlava
inglese. “Ci sono donne e bambini svenuti qua in mezzo – ha detto – ci manca l\’aria”. Io, quei container li ho
visti, nel 2008, a Sebha. E li ho anche fotografati, di nascosto. E come me, li ha visti il prefetto Mario
Morcone, del Ministero dell\’Interno, durante le sue missioni in Libia. E li hanno visti Marcella Lucidi e
Giuliano Amato, quando nel 2007 volarono a Tripoli per firmare l\’accordo sui respingimenti che – spesso lo
si dimentica – fu voluto dal governo Prodi, prima che arrivassero i Maroni e i Berlusconi.
(…)Ogni eritreo che attraversa il mare ha in Italia un parente che lo aspetta, che gli ha mandato con Western
Union i soldi per lasciarsi alle spalle la dittatura. E di fronte a quei nomi, la ragion politica vacilla.
Sulla base di quale interesse di Stato, Maroni consolerà una madre che su quel container diretto nelle prigioni
del Sahara ha il proprio figlio? O peggio ancora la propria figlia, che magari presto sarà violata, oltre che
bastonata, dai suoi carcerieri libici.
Ma in fondo perché prendersela così tanto con i politici?
Dopotutto sono espressione della volontà popolare. Ed è l\’Italia tutta che ha dimenticato i nomi della diaspora
eritrea e di tutte le diaspore che negli anni hanno varcato la frontiera via mare. La politica e la stampa ci
hanno insegnato a cancellare i loro nomi, a chiamarli “clandestini” e non più uomini. Questa stampa pigra,
tanto attenta a lucidare i mocassini dei politici di turno quanto disabituata a sporcarsi le scarpe andando sul
terreno. Altro che legge bavaglio. Il silenzio dei media sul destino dei respinti si chiama autocensura. Ed è un
silenzio colpevole. Perché il giorno in cui smetteremo di raccontare queste storie sarà come se tutto questo
non fosse mai accaduto. E continueremo a riempirci la bocca di retorica, magari continuando a condannare le
deportazioni degli ebrei, mentre intorno alla “civile” Europa si contano a migliaia i morti della diaspora
eritrea. E ci ostiniamo a non capire che sono i nostri morti. Perché sono i parenti dei nostri nuovi
concittadini. (…)
Fonte: Fortress Europe

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