AAB presenta La dolce vita della Pop Art italiana

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La Pop Art visse proprio nella capacità di restituire un rispecchiamento enfatico, deformante della scena urbana. La fotografia – con altri mezzi di riproduzione seriale – fu allora definitivamente acquisita come arte fra le arti, volgendosi ormai la riflessione al valore della ripetitività, della riproduzione e diffusione delle immagini in una società che cominciava a triturare tutto nel consumo, nel dominio della velocità. Osservò allora Gillo Dorfles che «l’Italia è forse tra tutti i Paesi europei, e gli stessi italiani non se ne rendono conto, uno dei più moderni. Cioè uno di quelli che ha saputo sovrapporre alla sua veste antica anche un abito autenticamente moderno».

Nell’ambito Pop italiano, uno specifico ruolo ebbero i protagonisti della stagione romana che fu detta della Scuola di Piazza del Popolo, come Mario Schifano (catturava i segnali della vita d’ogni giorno – graffiti, insegne e cartelloni pubblicitari con scritte come Esso e CocaCola – e li immetteva sulla tela con inventiva irruente, raccontandoci anche la nostra coazione a ripetere), Franco Angeli (emblemi della romanità e del nuovo potere imperiale Usa), Tano Festa (il michelangiolismo e il barocco romano ridotti a insegne), i quali – con i vari Tacchi, Mambor, Lo Savio, Lombardo, Ceroli, Mauri, Pascali, Kounellis, Giosetta Fioroni – archiviavano immagini, cose e scarti dalla vita quotidiana con sedimentazioni della tradizione visiva, ma già in una contemplazione remota, col senso di una tradizione millenaria incarnata da Roma, carica di spossato nichilismo.

Qui, il fenomeno della dolce vita, legato al boom economico, diede il via a un profondo rinnovamento del costume italiano. Ma la dolce vita romana s’intrecciò con ricerche d’altri centri italiani, specie Bologna (Pozzati) e Milano (Tadini, Adami, Del Pezzo, Baj …), dove si raccontò la frammentazione della condizione umana, di oggetti e di corpi, confusi gli uni negli altri in montaggi fumettistici. La rivoluzione fu linguistica, più che di critica sociale. Fu anche un modo per collocare le forme più evidenti e tipiche della società in un universo mitologico. Arte o pubblicità? Fu falso problema, l’arte da sempre si è venduta come merce. E l’arte restituì alla società di massa una capacità di guardare fuori, al mondo, che allora sembrò violenta, provocatoria, sarcastica, ma che è diventata un modo comune di guardare, un’esperienza quotidiana.

Mario Schifano in particolare, scomparso nel gennaio 1998, fu chiamato da qualcuno l’Andy Warhol italiano, anche nel maledettismo: profuse quanto sprecò il suo talento, in un vitalismo vorace, trasandato e disperato. Eppure anche Schifano ci ha aiutato ad intendere che le immagini non sono altro che reti che trattengono frammenti di memoria, mentre tutto il resto si cancella. Sarà infatti interessante osservare, anche in poche esemplificazioni proposte all’AAB, come gli anni Sessanta, così fragorosi – la tv in casa, il traffico, le vetrine e la pubblicità per strada -, si aprirono in realtà nell’arte con un gran bisogno di silenzio, di rarefazione e presa di distanza. Fu fondamentale l’offerta del testo all’interpretazione dello spettatore, che condusse al concetto di opera aperta, cioè di arte come comunicazione.

Anche  la mostra inaugurale della nuova stagione è stata inserita nel programma e nel catalogo ufficiali della “Giornata del contemporaneo”, organizzata dall’AMACI (Associazione dei Musei d’arte contemporanea italiani), la cui ottava edizione si terrà il 6 ottobre 2012, al fine di incentivare lo sviluppo del tessuto culturale territoriale. Le porte di musei, istituzioni e associazioni culturali saranno aperte gratuitamente in ogni angolo del Paese, per presentare artisti e nuove idee attraverso mostre, laboratori, eventi e conferenze. Un programma multiforme che regalerà al grande pubblico un’occasione per vivere da vicino il complesso e vivace mondo dell’arte contemporanea.

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