Come e perchè la mafia ha vinto

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    La “questione mafia” ritorna prepotentemente alla ribalta della cronaca, sia per le deflagranti dichiarazioni al processo di Torino, sia per i colpi sferrati dallo Stato, nei confronti di esponenti di spicco – vecchi e nuovi capi – di “Cosa Nostra”. Non solo un’organizzazione delittuosa dedita ad una multiforme gamma di attività illecite, ma un vero e proprio sistema di potere criminale che, connotato da una totalizzante “signoria territoriale” nell’ambito di un consolidato radicamento localistico, espande i propri traffici a livello globale mediante una strutturazione reticolare, facendosi forte di relazioni corruttive con alcuni settori dello Stato e della politica. Quando, addirittura, non è in grado di autorappresentarsi in proprio come avviene in alcune plaghe del Mezzogiorno. Insomma la mafia oggi quale impresa multinazionale del crimine che produce ingenti ricchezze per gli affiliati attraverso iniziative delittuose supportate da società di copertura di un’economia sommersa, retta sul riciclaggio di capitali sporchi. Al di là di interpretazioni  ricorrenti, improntate a paradigmi “culturalisti”, che hanno messo in luce codici espressivi, pratiche comportamentali, scale gerarchiche di valori da riconnettere ed un vissuto – la “mafiosità” – riconoscibile per atteggiamenti, sentimento di appartenenza, mentalità, resta questo – vale a dire la sua natura di organizzazione criminale – il nocciolo duro di identificazione della mafia e, fatte le debite differenziazioni, delle mafie: oltre a “Cosa Nostra”, la “Camorra”, la “Ndrangheta”, “la Sacra Corona Unita” operanti nel nostro Paese, per altro alle prese con plurime associazioni criminali d’importazione straniera. Ebbene: già più di un secolo fa Gaetano Mosca denunciava il vizio di discorrere “senza disporre di un concetto preciso ed esatto della cosa, o delle cose, che  colla mafia [si] vogliano indicare”. Questo l’impegno su cui si cimenta Nicola Tranfaglia in un denso volume dal titolo provocatorio Perché la mafia ha vinto. Utet, 2008, nel quale lo studioso sintetizza gli esiti di precedenti ricerche, volte ad affrontare il problema sia in termini di valutazione storiografica che di giudizio politico, in nome di una battaglia insieme ideale e civile. L’indagine affonda sino ai primordi del fenomeno mafioso a partire dal decennio successivo all’unificazione nazionale, allorquando le classi dirigenti, dopo la conclusione della guerra al brigantaggio meridionale, concentrano la propria attenzione sulla mafia siciliana, dando vita ad apposite commissioni d’inchiesta. Tocca ad un liberale riformatore, entusiasta dell’Inghilterra di  Gladstone, Leopoldo Franchetti,  formatosi sotto l’influenza teorica di Stuart Mill e dello storico positivista Pasquale Villari, stendere con Sidney Sonnino quella relazione sulle Condizioni politiche e amministrative della Sicilia (1877) che coglie un aspetto centrale della società locale: l’incapacità dello Stato di esercitare il monopolio della forza, lasciando il potere di contrasto ai “facinorosi della classe media”, ai “gabellotti”, vale a dire agli agrari e alla classe abbiente che li domina. Una diagnosi cui si accompagnano lungimiranti valutazioni da parte dello stesso Sonnino il quale ammonisce come “in Sicilia, colle nostre istituzioni modellate sopra un formalismo liberale, anziché  informate ad un vero spirito di libertà, noi abbiamo fornito un mezzo alla classe opprimente per meglio rivestire di forme legali l’oppressione”. Ha sostanzialmente inizio nell’ultimo quarto dell’800 quella linea oscillante, tra una negazione vera e propria del fenomeno mafia e l’illusione che da sola la repressione poliziesco – giudiziaria, talora persino militare, possa risultare efficace, decisiva. Faticosa appare la consapevolezza che parlare di mafia non identifica solo un comportamento, ma anzitutto un’istituzione sociale, una forma di funzionamento della comunità, o di parte di essa, retta sulla convivenza tra crimine, affari illegali, politica. Come dimostra già nell’Italia postunitaria il delitto Notarbartolo, sindaco di Palermo e poi direttore generale del Banco di Sicilia, esponente di spicco della Destra storica. La mafia insomma – lo intuisce non un osservatore italiano, ma il console tedesco a Messina, Augusto Scheneegans,  in un libro apparso nel 1890, come “uno Stato nello Stato, rappresentando una forza illegale ed arbitraria, la quale invade l’ordine”, abolendo di fatto la legalità. Una riflessione che troverà ulteriore sviluppo nelle tesi su L’ ordinamento giuridico (1918) elaborate dal giurista siciliano Santi Romano a proposito della pluralità degli ordinamenti giuridici e delle “istituzioni dello Stato considerate illecite”: la presa d’atto di una “costituzione materiale” che rappresenta vincolo e limite al monopolio d’autorità e all’esercizio della forza da parte dello Stato, fino a definire una sorta di “spazio politico” sovrano. Una linea di continuità che approderà all’Italia repubblicana nonostante la dinamica repressiva attivata dal regime fascista che porterà ad un indebolimento delle associazioni criminose, a una sorta di relativa pax mafiosa retta, da un lato, sull’emigrazione di una parte ragguardevole della manovalanza e di alcuni boss in America, dall’altro su di un parziale inabissamento  di “Cosa Nostra”, senza che tuttavia questo significhi un sostanziale arretramento di agrari e “gabellotti”. Tranfaglia segue con attenzione le vicende dell’immediato secondo dopoguerra e dei decenni successivi, sino alle due guerre di mafia, rispettivamente dei primi anni Sessanta e Ottanta, nonchè agli attentati del ’92 e del ’93. Sottolinea altresì il rapporto tra la classe dirigente italiana, la mafia emersa dopo lo sbarco anglo-americano in Sicilia e la lotta contro il partito comunista  che si accompagna alla mobilitazione del fronte neofascista, offrendo una convincente ricostruzione della strage di Portella della Ginestra e della vicenda  del bandito Salvatore Giuliano. Particolari approfondimenti propone poi circa l’attività delle commissioni parlamentari d’inchiesta sulla mafia succedutesi nell’Italia repubblicana, con particolare riguardo all’ostilità frapposta dalle forze di Governo alla loro iniziale istituzione, nonché alle relazioni conclusive del democristiano Francesco Cattanei  (1968-1972) e di Luciano Violante. Relazioni dense di elementi conoscitivi, di proposte concrete, per lo più rimaste lettera morta, lungo un tempo in cui la mafia viene rimodellandosi sui processi di “modernizzazione competitiva senza sviluppo” che in alcune zone del Mezzogiorno accompagnano il vecchio assistenzialismo. Una mafia “imprenditrice” che si specializza, facendo il suo ingresso nel traffico internazionale della droga,  promuovendo saccheggio urbanistico e degrado urbano, rendendosi intermediatrice di interessi plurimi, articolandosi in un’ala politico – affaristica e in una componente militare – terroristica. In questo quadro le stragi di Capaci e via D’Amelio prima, i successivi attentati in continente poi, sono tappe di una lucida, quanto efferata, progressione terroristica che deve annientare nemici  giurati di provata esperienza e grande capacità – Giovanni Falcone e Paolo Borsellino -, nonchè aprire la strada ad un sistema politico più poroso, permeabile alle finalità criminali di “Cosa Nostra”. E sarà la lunga “bonaccia” protrattasi per un quindicennio – tra l’arresto di Riina (1993) e quello di Provenzano (2006) trascorrono ben tredici anni – a far dire a Tranfaglia, in modo sconsolato, ma con disposizione non rassegnata nè inerte, che “la mafia ha vinto”. Se è vero, com’è vero, che qualcuno addirittura teorizza che con “la mafia bisogna convivere”.

     

    Paolo Corsini

     

     

     

     

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