di Bruno Forza – Esistono luoghi speciali per pochi e insignificanti per tanti, altri che entrano nel cuore di una moltitudine di persone per non uscirne più. San Faustino è uno di questi, e non potrebbe essere diversamente, forse perché questo dedalo di viuzze tappezzato da edifici variopinti e incastonato nell’anima più profonda della città, è riuscito ad essere una spugna in grado di assorbire completamente il flusso della storia, restituendo a chiunque vi mettesse piede, anche solo per un attimo, i riflessi tipici della brescianità. Il 15 febbraio, in occasione della festa patronale dei Santi Faustino e Giovita, il dna bresciano diventa visibile, udibile, palpabile, fiutabile e gustabile. Sarà quel capitello romano o quel muretto sgretolato su cui si appoggia una vecchietta che sussurra “Che strachèsa”. Oppure quella candela che brilla nel silenzio della chiesa, o lo zucchero filato che quel bambino – troppo piccolo per districarsi dalla corrente umana della fiera – sta incollando sul cappotto di un inconsapevole signorotto baffuto. C’è anche l’ambulante della bassa, che mette in mostra i suoi salami e urla a più non posso: “Salàm, salàm, l’è nostrà, l’è el pö bù!”, mentre il profumo di caldarroste e vin brulé si sprigiona nell’aria. Intanto, mentre la folla si fa sempre più fitta e pressante c’è chi inizia ad allungare mani furtive verso tasche e borsette altrui. Poi ci sono gli ambulanti mobili, quelli per i quali è fiera tutto l’anno, che stendono i loro teli bianchi a terra appena fuori dal circuito tradizionale. Anche loro sono già storia di un capitolo chiamato immigrazione iniziato nei primi anni ’90 e ancora in corso in altri modi, con altri impatti, problematiche e speranze, mentre Brescia si colora di nuove culture e religioni diverse da quelle di Faustino e Giovita, due gnari che, se fossero qui direbbero ai loro concittadini vecchi e nuovi la cosa più semplice: “Sö le manéghe”. Costruite insieme la Brescia del futuro.