L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 3-4

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO III

Don Pompeo Cappelletti era detto don Pompetta
Cappelleo a causa della strana configurazione del
suo corpo, largo in modo abnorme all’altezza delle anche
e dei glutei e che andava restringendosi vistosamente
nella parte alta del tronco, finendo in due spalline strette
strette che sorreggevano una testa oblunga: proprio la
forma di quelle pompette che una volta si usavano per
fare gli enteroclismi. A coprire la scarsa capigliatura sempre
un basco alla francese. Era stato Cappellano Militare
nella guerra ’15-’18 e si diceva avesse, non si sa con quale
incarico, partecipato anche alla guerra di Spagna, ovviamente
dalla parte dei franchisti.

Era un grande sostenitore del Fascismo e non perdeva
occasione per esprimere la sua enorme ammirazione per il
Duce e per le sue grandi opere. Durante le sfilate in occasione
delle giornate ufficiali, naturalmente istituite dal
Regime, sfoggiava sulla tonaca alcuni nastrini militari
colorati e qualche medaglia assegnatagli non si sa perché.

Teneva ottimi rapporti con le autorità fasciste. Due volte
al mese si recava a Brescia, con la scusa di andare in
Arcivescovado, diceva, o a trovare qualche parrocchiano
ricoverato nel locale ospedale, oppure ad acquistare qualche
articolo che non si trovava nei negozi della valle. Per
raggiungere il capoluogo prendeva il trenino che partiva
qualche minuto dopo il termine della messa delle sette,
oppure trovava un passaggio su qualche auto di servizio
o di proprietà di qualche privilegiato che, per meriti
politici o perché svolgeva comunque attività che interessavano
il Partito, era esentato dal divieto di uso personale
delle vetture a benzina.

Giunto a Brescia sbrigava il più velocemente possibile la
visita in Arcivescovado, augurandosi di non trovare mai il
Vescovo che aveva fama di sinistrorso e che, con quello
sguardo profondo, durante gli incontri lo guardava sempre
negli occhi mettendolo in imbarazzo. Si dedicava
quindi alle poche commissioni, trascurava le visite in
ospedale e poi, guardandosi in giro con circospezione,
sperando di non essere seguito e di non incontrare qualche
persona che lo conoscesse, si recava in una stretta via
che partiva da piazza Tebaldo Brusati e suonava al n°10.
Quando gli veniva aperto gettava un ultimo sguardo sia a
destra che a sinistra e poi si precipitava all’interno.

Era la sede dell’OVRA, la polizia politica del Regime,
che si interessava di controllare, interrogare – sempre più
spesso con la tortura – tutti quelli che sembravano critici
o contrari al Regime. Gli uffici erano stati ricavati in
un appartamento requisito a una coppia di antifascisti
che erano stati inviati, per redimersi, al confine in un
paese sperduto tra le valli dell’appennino calabrese. Per
mancanza di fondi il mobilio non era stato sostituito e
quindi l’ufficio del Commissario era situato nel salotto
di casa con tanto di poltrone e divano.

Gli appartenenti all’OVRA ritenevano che quella sede
non fosse conosciuta se non a loro – chi vi era portato
veniva preventivamente bendato – ma a Brescia, come
succede in tutte le piccole città del nord di curiosi e di
pettegoli, tutti sapevano.

Qui don Pompeo veniva fatto accomodare in un salottino
e dopo poco veniva raggiunto dal Commissario Capo.
Bevuto un caffè i due si mettevano a chiacchierare come
due vecchi amici, ma ben presto il discorso si limitava ad
un soliloquio del prete. Raccontava tutte le notizie raccolte
a Breno e in altri paesi della valle. Solo notizie, ovviamente,
che potevano interessare alla Polizia Politica.

Il Parroco era un abile confessore. Se chi si presentava
per ottenere l’assoluzione era donna dai 40 ai 60 anni –
mai fidarsi delle giovani moderne che prendevano i
sacramenti e, soprattutto, le autorità ecclesiastiche troppo
sotto gamba – riusciva sempre a intrufolarsi nei suoi
pensieri e a sviscerarne i più reconditi segreti. E se si parlava
di peccati riguardanti il sesso, don Pompeo voleva
sapere, con dovizia di particolari, come si erano consumati.
I movimenti, le posizioni, la condivisione o meno
alle eventuali strane richieste del marito, e se, magari con
l’aiuto del preservativo o del coitus interruptus, erano
state violate le leggi stabilite dalla chiesa. Giustificando
tutto ciò con il fatto che la gravità del peccato era in proporzione
al godimento ricevuto e che un orgasmo femminile
non era cosa buona. Al Parroco questi racconti davano
lo stesso malsano godimento che avrebbe ricevuto –
fervido come era di immaginazione – guardando un film
porno. Se capitavano in una giornata tre confessioni di
questo genere, don Pompeo usciva dal confessionale spossato
ma evidentemente appagato.

Uguale malizia il prete usava nel raccogliere notizie dal o
dalla penitente riguardo la vita privata, la sua, quella del
coniuge e, qualche volta, dei vicini. Ricordando che se si
fornivano notizie di atti contrari al Fascismo – al partito
che aveva voluto un concordato così… cristiano – si faceva
solo il volere di Cristo. E quanti o quante ci cadevano!
Don Pompeo manteneva anche ottimi rapporti con i
parroci dei paesi vicini, con i quali spesso si incontrava
per uno scambio di vedute, non spirituali, certo,
ma… politiche.

– Alla prossima visita all’OVRA dovrò far cenno anche di
quel don Sprezzali, Parroco di Bienno, che mi sembra
troppo impegnato con Cristo e poco col Duce – pensava
spesso, anche se non era mai riuscito, in fin dei conti un
residuo di carità cristiana tentava di sopravvivere ancora
nel suo animo, a denunciarlo.

Finito il colloquio con il Commissario, questi chiamava
un dipendente che, ad un suo cenno di assenso, lasciava
la sede diretto al vicino casino. Nel frattempo il prete
veniva fatto accomodare in una stanzetta arredata con un
comodo letto, due belle poltrone e un lavandino. Lì si
spogliava dagli abiti talari che nascondeva in un armadio
ed attendeva la ricompensa ai suoi servigi. Poco dopo,
infatti, una prostituta (“molto florida, mi raccomando”
aveva richiesto la prima volta) proveniente dal vicino postribolo
bussava alla porta pronta a sottomettersi ai suoi
desideri. Nel frattempo lui aveva ripassato il contenuto di
qualche confessione e, tutto eccitato, si era predisposto a
sfruttare nel modo migliore l’occasione.

CAPITOLO IV

La farmacia Temperini si affacciava sulla piazza S. Agostino
al termine della via Roma che era in ripida salita.
Sembrava fosse stato scelto il posto giusto perché chi
era perfettamente sano potesse raggiungerla senza affanno,
ma chi aveva problemi di salute, arrivato alla farmacia, se
li trovasse raddoppiati e bisognoso di ulteriori cure: per la
gioia del farmacista.

Entrando si era avvolti dagli odori degli ingredienti dei
vari prodotti galenici, quelli preparati direttamente dal
farmacista, che un tempo andavano per la maggiore,
essendo la produzione industriale dei medicinali ancora
limitata. Anice, liquirizia dai buoni odori dolciastri, ma
anche valeriana, aconito, malva, stramonio ed altre erbe
officinali. Nel retro si sentiva in continuazione il picchiettare
di un pestello in un mortaio, ove un inserviente
lavorava i componenti per preparare decotti, pillole e
cachet secondo le ricette del medico condotto o del titolare
della premiata farmacia. Ricette vecchie di lustri che
mai venivano modificate in quanto nessuno si prendeva
la responsabilità di farlo, anche perché effettivamente
spesso le condizioni di salute di chi li ingurgitava miglioravano.
Probabilmente più per l’effetto placebo che per
le proprietà delle formulazioni.

La farmacia era condotta dalla figlia del proprietario,
Ida, con l’aiuto al banco di un certo Angiolino che non
aveva le rotelle che giravano tutte al modo giusto se non
quando si trattava di fare i conti ed incassare. Era il figlio
della Sofia, la balia che aveva nutrito Ida quando la madre,
pochi giorni dopo il parto, era morta di febbre terziaria.
Prima di trovare la balia, Ida aveva sofferto la fame rifiutando
il latte di mucca e l’acqua zuccherata che le venivano
offerte in cambio del latte materno. Ma quando era
stata rintracciata la balia, che aveva da poco partorito
l’Angiolino, si era rifatta abbondantemente e Sofia aveva
lasciato fare perché era molto interessata ai soldi promessi
in caso avesse fatto crescere in modo rigoglioso la piccola
orfanella. Si diceva che l’Angiolino non fosse del tutto
normale perché durante i primi mesi di vita non aveva
ricevuto sufficiente nutrimento in quanto, quando la
mamma gli offriva le tette, queste ormai erano praticamente
vuote. Il farmacista probabilmente aveva accettato
questa ipotesi ed aveva preso a lavorare con sé l’Angiolino
come segno di riparazione. Il commesso, che si interessava
più che altro della cassa, prima di dare il resto aveva
preso l’abitudine di chiedere con fare mellifluo, chiunque
fosse il cliente, uomo, donna, vecchio o giovane:
“Vuole mica una bella scatola di preservativi?”

Alle lagnanze dei clienti, il Temperini, spesso, si riteneva
per burla, rispondeva che il suo commesso era impotente
e che con quella proposta voleva che i clienti facessero
in tutta tranquillità quello che a lui non riusciva:
quindi la sua era una affettuosa cortesia. La Ida ormai
non faceva più caso alle stranezze del fratello di latte ed
alle lamentele dei clienti. Era sempre triste e immusonita:
precisa e disponibile nella gestione della farmacia ma
altrettanto scostante.

Anni addietro aveva perso la testa per un operaio della
Ferriera Tassara e forse ci aveva anche fatto all’amore.
Scoperta dal padre le era stata vietata la frequentazione
del povero operaio, con la minaccia di essere diseredata.
Dapprima aveva resistito alle imposizioni del padre, ma
poi, quando il moroso (per intervento del farmacista?)
era stato licenziato con uno strano pretesto ed aveva
dovuto emigrare in Francia in cerca di lavoro, aveva per
forza accettato la nuova situazione ma aveva iniziato ad
odiare in silenzio il genitore.

Il Temperini difficilmente rimaneva in farmacia dopo
l’apertura. O se ne andava a caccia, se era stagione e la
giornata non prometteva pioggia, oppure si trasferiva al
bar Monte Grappa che si trovava proprio di fronte alla
farmacia, dove passava ore ed ore.
Alto, magro elegante, con un paio di baffetti sempre
curatissimi, il farmacista portava occhiali con lenti scure
che aggiungevano al fascino naturale un qualcosa di
misterioso. E’ inutile dire che piaceva alle donne, soprattutto
alle contadine e alle mogli dei numerosi pastori alle
quali non faceva mancare la sua presenza quando queste
rimanevano a casa sole, essendo i mariti agli alpeggi con
le mucche, o, come ora, al fronte. Anche se in paese si
parlava molto delle sue avventure, nessuno aveva prove
concrete, perché per le sue attività amatorie si recava
nelle cascine fuori paese, dove aveva più facilità di successo.

E poi a lui piacevano queste donne franche, di carne
abbondante e di pretese limitate. Accoppiamenti classici,
senza l’obbligo di preliminari laboriosi e finali
romantici, che lo appagavano pienamente. “Una botta e
via”, come usava dire il Temperini che, invero, ben
difficilmente accennava alle sue conquiste.

Ci aveva provato una volta anche con la maestra signora
Lucia, che però gli aveva fatto capire chiaramente che
apprezzava le avances ma che non sapeva che farsene di
una persona che nulla di concreto avrebbe potuto lasciarle.
Il farmacista si era ritirato in buon ordine con un
mazzo di fiori e tante scuse.

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