L’ORTO FASCISTA | romanzo di Ernesto Masina | CAP. 11-12

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L'Orto Fascista di Ernesto Masina, capitoli

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CAPITOLO XI

Arrivarono al ristorante dell’albergo Fumo quasi contemporaneamente
e si diressero a un tavolino d’angolo che permetteva ad entrambi di
vedere bene tutta la sala e chi andava o veniva.

“Polenta e coniglio per tutti e due, e un litro di rosso”
disse il Temperini al cameriere che si era avvicinato al loro
tavolo. Lo disse con voce imperiosa a sottolineare l’importanza
della scelta fatta anche a nome del suo compagno,
quasi a far dimenticare che quel giorno all’albergo
Fumo si servivano solo polenta e coniglio, come scritto
in un cartello apposto all’ingresso del locale.

Era fatto così il farmacista, si sentiva sempre un personaggio
importante in paese e aveva costante il desiderio
di mettersi in mostra.

D’altra parte di farmacista a Breno ce ne era uno solo: un
po’ come il Padreterno, gli veniva da pensare qualche
volta… o, più modestamente, una primadonna.
In attesa della polenta, il Russì raccontò dell’incontro
con Martin Bascià spiegando che, data la rabbia che
Martin aveva nei riguardi dei tedeschi, se ne avessero
avuto bisogno avrebbero potuto contare su di lui.
“Ma cosa hai in mente?” chiese il Temperini alla fine del
racconto e dopo un minuto di silenzio. Il farmacista era
al tempo stesso timoroso di essere coinvolto in qualcosa
di troppo grosso per lui, ma anche esaltato dall’avventu-
ra che avrebbe vissuto da protagonista.

– Storie a non finire! Ci sarà da raccontarne al bar per
mesi, forse per anni – aveva pensato vedendosi già al Bar
Monte Grappa a raccontare nell’attento silenzio dei soliti
avventori.

“Hai già pensato a tutto? Perché tutto vuol dire: come
preparare il… diciamo… il colpo; quali risultati, o meglio
quali danni si vogliono arrecare; poi, dopo il casino, cosa
ci dobbiamo aspettare dai fascisti, dai tedeschi… da tutti
quelli, insomma, che non la pensano come noi e che
saranno incazzatissimi”.

Il Russì non si decideva a parlare. Ogni poco si portava
il bicchiere alla bocca trangugiando piccoli sorsi di vino
come se avesse bisogno di tener bagnata la lingua. In
effetti anche lui si era posto le stesse domande e si era
dato un sacco di risposte diverse. Avrebbe voluto dimostrare
ai tedeschi che loro non erano degli intoccabili e,
soprattutto, farli apparire vulnerabili perché smettessero
di comportarsi con la prosopopea dei conquistatori di un
popolo vile e sottomesso anche, e soprattutto, psicologicamente.
Avrebbe potuto essere poco più di una burla,
un scherzo un po’ pesante con la mira di ledere la dignità
teutonica. E non sarebbe stato poco: l’Italia s’è desta –
pensava in grande.

“Dottore, ascolti” disse infine il Russì. “Mica li voglio
ammazzare, ’sti tedeschi. Gli facciamo uno scherzo: un
po’ di dinamite sotto la macchinetta e bum, gliela facciamo
a pezzi. Vedrà che calano le arie e per un po’
non rompono”.
“La dinamite so dove trovarla, la portiamo in paese, la
mettiamo nel gabbiotto degli attrezzi che hanno costrui-
to in quello che chiamano l’Orto, aspettiamo una notte
che ci si veda poco, portiamo il pacchetto di dinamite
sotto la macchinetta, un pezzo di miccia e via. Tutto finito.
Io, prima che arrivi qualcuno, sono già nel vicolo
delle suore verso il Cerreto del matt Ruscu e lì vado a
passare la notte”.

“E io, io cosa faccio, come posso partecipare?” chiese
subito il farmacista che si sentiva, improvvisamente,
escluso dalla gloria che sarebbe piovuta su chi avesse partecipato
all’attentato. Cosa avrebbe mai potuto raccontare
al bar? Che sapeva e non aveva fatto nulla? Che era un
pauroso e un coglione?

In quel momento giunse, dall’ingresso, un forte vociare
e rumore di suole dure sull’impiantito di legno. Subito
dopo, dalla porta entrò lo Sturmfürher, seguito da tre dei
suoi uomini. L’ufficiale tedesco fece due o tre passi verso
il centro della sala, quindi, distendendo il braccio, urlò
“Heil Hitler!”

Attese, invano, che qualcuno degli avventori facesse
anche solo un cenno di partecipazione. Tutti continuarono
a mangiare o a parlare a bassa voce dei fatti loro
come se nulla fosse accaduto. L’ufficiale rimase imbambolato
in mezzo alla sala, si sentiva sempre triste e solo in
un paese che lo detestava. Ciò nonostante, ripeteva questo
gesto spontaneamente quando entrava in qualche
locale pubblico, pur sapendo che il comportamento
degli italiani sarebbe sempre stato lo stesso.

– E allora perché lo faccio? – si domandava ogni volta
sempre più avvilito. Probabilmente questione di carattere,
ma che carattere del cavolo aveva!
A toglierlo dall’imbarazzo fu il cameriere che, prenden-
dolo quasi per un braccio e dicendogli:

“Venga, Comandante”, lo guidò verso un tavolino un
po’ defilato. Ai tedeschi non veniva mai fornita la Lista
del giorno, in quanto loro consumavano le razioni che
ogni tre giorni arrivavano dal Comando di Brescia, razioni
che venivano preparate con puntigliosa precisione:
ognuna aveva persino il suo stuzzicadenti. Nonostante
abituati alla loro cucina, che mischiava ingredienti salati
e dolci ma senza alcun profumo, quando si sedevano a
tavola al Fumo erano costretti a comparare le loro porzioni
anonime con gli appetitosi profumi che giungevano
dai piatti degli altri commensali che guardavano con
invidia. L’albergo aveva avuto sempre la tradizione di
un’ottima cucina ed anche in tempo di autarchia il cuoco
cercava di sopperire alla mancanza di ingredienti con l’amore
verso il proprio lavoro. Quel giorno, poi, quella
polenta con il coniglio arrosto, la specialità di Vittorio il
cuoco, li fece impazzire di desiderio.

In mancanza di olio e con poco burro a disposizione, il
Vittorio aveva imparato a far imbrunire salvia e rosmarino
nello strutto e ad insaporire il sugo con le interiora del
coniglio lasciate a macerare per una notte nel vino rosso e
poi tritate fini fini, sino a ridurle in poltiglia. Ma il segreto,
che avrebbe fatto inorridire i buongustai e che non
avrebbe mai rivelato neppure sotto tortura, era quel cucchiaino
di miele di castagno che andava sempre ad aggiungere
di nascosto per mitigare l’amarognolo del rognone.
“Bravo dottore, qui la volevo! Avevo paura che mi
lasciasse solo a fare tutto, come fate abitualmente voi ricchi
che ve lo menate tutto il giorno e intervenite solo
quando c’è da incassare!” Alzò il bicchiere, ormai quasi
vuoto, in un gesto di complicità condito con un sorriso
d’amicizia.

“Il lavoro c’è, è molto delicato e anche pericoloso, se lo
volete fare”.

“Certo che lo voglio fare” rispose il farmacista con il
tono di voce un po’ meno entusiasta dopo quei “delicato”
e “pericoloso” usati dal Russì.

“Vede, bisogna trovare il modo di portare l’esplosivo in
paese; mica lo posso mettere nello zaino io, che se mi fermano
i fascisti o i tedeschi mi ritrovo sparato come un
coniglio. Ormai se vedono uno entrare in paese quasi
sempre lo fermano e lo perquisiscono.”

Questa asserzione fece scorrere un brivido di gelo lungo la
schiena del farmacista. Organizzare un attentato era una
cosa, parteciparvi attivamente era ben diverso. Ma ormai
c’era dentro e non poteva ritirarsi senza perdere la faccia.

“Cosa hai in mente?” chiese mentre lo sconforto lo prendeva
sempre più.

“Ci ho pensato molto, ma non trovavo la soluzione. Poi
mi è venuta in mente una cosa che, però, un po’ mi ripugna.”
Si fermò per un po’ quasi fosse restio a continuare,
come se avesse veramente vergogna a proporla. Tra i due
uomini corsero molte occhiate che esplicitavano tutto il
disagio che avevano dentro di loro. Alla fine il montanaro,
dopo essersi schiarita la voce ed essersi guardato intorno
per sincerarsi che nessuno degli occupanti dei tavoli
vicini fosse a portata di voce, riprese a parlare:

“Dottore, io glielo dico, però lei non mi dà una risposta
senza prima averci pensato bene. In un primo momento
la mia proposta le darà fastidio e la troverà inaccettabile;
quindi non dica nulla sino a quando non avrà valutato i
pro e i contro. Per fare il trasporto ci vorrebbe un bambino.
Nessuno controlla i loro giochi e il loro andare e
venire per i boschi. Ormai è tempo di funghi e, per
esempio, il figlio del dentista con il suo amico, mi pare
si chiami Ernesto, due o tre volte la settimana vanno,
appunto, per funghi. Lei li conosce bene: qualche volta
vi ho visti parlare insieme e mi sembrava che la stessero
ad ascoltare con grande ammirazione e interesse.

Probabilmente lei stava raccontando qualcuna delle storielle
che si inventa per i grandi ma che, adattate all’età,
piacciono anche ai bambini. Lei dovrebbe raccontare
loro che, insieme a me, ha preparato un concime miracoloso.
Un concime che, se usato nell’orto che stanno
lavorando con i loro compagni di scuola, darebbe un
raccolto da farli diventare famosi. Lei potrebbe offrire
loro un po’ di questo concime, a patto di mantenere il
segreto. Guai se parlassero: prima di tutto perché il merito
non sarebbe più stato loro, poi perché avrebbero
potuto sgridarli, avendo compiuto una cosa di nascosto
dalla maestra… quella poco di buono che hanno nominato,
cose da pazzi, Custode dell’Orto Fascista. Li potrebbe
mandare da me a ritirare un pacco di questo…
concime, da nascondere nel gabbiotto dell’orto, in attesa
di usarlo al momento giusto. Il momento glielo dirà
lei, studiando le fasi della luna. Ci pensi su. E adesso
andiamo che a me questa presenza dei tedeschi mi fa
girare le palle”.

CAPITOLO XII

Lasciato il farmacista, il Russì era andato verso il Punt
della Madonna a cercare 3B, ovvero Bettino Bum
Bum, così chiamato perché aveva fatto, prima di prendersi
la silicosi, il minatore in Francia, dove si era specializzato
come preparatore di candelotti di dinamite e
nel farli brillare nel modo giusto. Al rientro al paese
aveva continuato a tenersi in esercizio, dando, a volte
una mano all’Azienda Autonoma Statale della Strada
nell’anticipare la caduta di una frana che minacciava di
invadere qualche via di comunicazione, soprattutto in
montagna; altre volte lavorando per i Tassara, che stavano
preparando nuovi piccoli invasi per ottenere energia
elettrica per il funzionamento dei macchinari della fonderia.
Tutte le volte che gli affidavano la dinamite per
qualche lavoro, il Bettino, attentissimo a non essere scoperto,
ne sottraeva un piccolo quantitativo nascondendolo
in luoghi sicuri. Avere della dinamite a portata di
mano, come lui diceva, “serve sempre”.

Il Russì andò da lui a colpo sicuro, ma fu costretto a spiegare
sin nei minimi dettagli il piano che aveva in mente,
per creare un certo interesse nel Bettino che, da uomo
dai nervi d’acciaio – freddezza, precisione ed un certo
grado di incoscienza avevano permesso al “brillatore” di
portare a casa, dalla Francia, la “ghirba” – non aveva inizialmente
mosso ciglio alle sue parole.

“Ci vediamo domani alle 10 al crusal, che ci devo pensare!”
fu l’unico commento del Bettino. “Attento: se ho il
cappello in testa ci parliamo, se ce l’ho in mano fa’ finta di
niente e non avvicinarmi. Guarda, comunque, che io non
ho sentito niente di quello che mi hai detto. Se ci starò ti
dirò dove e quando andare a prendere la “merce” già pronta.
Ma noi oggi non ci siamo incontrati. Cazzi tuoi! Io
non posso rischiare la galera o una bevuta di olio di ricino.
Tre giorni in gattabuia senza cure o una dissenteria e
io sono bell’e che morto. E per adesso non ho nessuna
voglia di lasciare la mia Ninetta dopo tanti anni che le
sono stato lontano”. Detto questo si girò e rientrò in casa.
Non si aspettava un atteggiamento diverso da quello e
quindi, tirate le somme il Russì si ritenne soddisfatto
dell’incontro. Era sicuro che Bettino gli avrebbe fornito
l’occorrente per l’attentato e che, da antifascista qual era,
fosse in fondo in fondo lieto di partecipare.

– Le sue paure sono scusabili – si disse conoscendo le precarie
condizioni di salute di 3B.

La mattina seguente prima delle 10 era al luogo dell’appuntamento,
in attesa. Finalmente vide, in lontananza,
la figura mingherlina del Bettino. Avanzava lentamente e
un po’ ingobbito per la strada in leggera salita, probabilmente
a causa della difficoltosa respirazione. Gli sembrò
stesse parlando da solo, mentre continuava a mettersi e
togliersi il cappello.

Improvvisamente, con un gesto melodrammatico, si ficcò
il copricapo in testa, raddrizzò il corpo e si mise a camminare
più speditamente: sembrava trasformato. Al Russì
venne da sorridere: l’amico aveva deciso di aiutarlo e se ne
sentiva fiero. Infatti dopo poco gli si avvicinò e gli disse:
“Stammi bene a sentire perché non ripeterò. Vai alla chiesa
di S. Maurizio. Sotto il portico alla destra c’è una lastra
più grande delle altre che non è ben francata: la alzi e sotto
trovi otto candelotti di dinamite. Ne prendi due di quelli
che hanno la miccia più lunga. Poi rimetti a posto la lastra
e dimentichi tutto. Tutto: quello che hai visto e gli incontri
che abbiamo avuto. TUTTO. Ciao” e se ne andò.

Ora bastava solo andare a prendere l’esplosivo e portarlo
in paese: poi sarebbe stato tutto pronto! Bisognava solo
aspettare il momento giusto per far saltare in aria quella
maledetta auto tedesca.

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