📕 Gattopardo a vapore | 📮 IL RACCONTO DELLA SETTIMANA/31

Riavvolse il nastro, ma per quella sua naturale propensione alla distrazione, tenne premuto il pulsante un minuto di troppo e si ritrovò ai primi del novecento, alla stazione dei treni di Corleone

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Umberto Tanghetti, scrittore

GATTOPARDO A VAPORE – racconto di Umberto Tanghetti

Riavvolse il nastro, ma per quella sua naturale propensione alla distrazione, tenne premuto il pulsante un minuto di troppo e si ritrovò ai primi del novecento, alla stazione dei treni di Corleone.

Non tentò di recuperare la fallace pigiata, perché il fermo-immagine su cui era atterrato sembrava un errore di storia e fu incuriosito:

“Ma come, un treno a Corleone? Sarà di certo un fotomontaggio!” pensò.

C’era stato lui a Corleone, ben più di una volta e mai aveva visto la ferrovia:  del resto quel paese nel mondo è famoso per il traffico intenso, intenso proprio per l’assenza della strada ferrata.

Non c’era che dire, l’errore di riavvolgimento di quella fettuccia magnetica, rapì la sua attenzione e decise di dare un altro colpetto all’indietro per cogliere tutto il contesto in cui si parlava del treno.

Il filmato, però, era muto, accompagnato da un grazioso sonoro di quelli dei primi del novecento, adeguato allo scopo di allietar la visione di fotogrammi sbiaditi e saltellanti secondo la primordiale tecnica del cinematografo.

Insomma, si ritrovava spaesato  nell’entroterra palermitano ai primi del novecento, dove i ritmi eran dettati dalla natura e accompagnati dal sudore ad ettolitri, dai calli alle mani e da vite che si consumavano in fretta.

 

I più fortunati erano i proprietari terrieri, quelli che potevano disporre della sostanza: terra, bestiame, coltivazioni di ogni sorta che davano la vera ricchezza.

Dalle bestie la carne ed il latte, dal latte i formaggi, dai formaggi i soldi, dai soldi il pagamento delle maestranze che coltivavano la terra che produceva il foraggio da dare alle bestie e le farine.

Ora pensano di avere inventato l’economia circolare, ma a Corleone, ai primi del novecento girava che era una meraviglia.

Girava se stavi sulla carrozza, ma questo è solo un dettaglio.

In tanti restavano sotto le ruote di quell’ingranaggio, prime vittime a saltare in caso di scarso raccolto , di siccità, di carestie;

prime vittime di certi soprusi di cui poi ci sarebbe stato sviluppo e i più poveri eran quelli che ci rimettevano sempre e in misura maggiore.

L’incertezza era compagna di viaggio, così come la morte, specie col parto o durante l’infanzia e a sessanta eri già vecchio decrepito e questa era condizione comune a quell’epoca.

Chi aveva la terra aveva più margine per incassare gli sgambetti delle stagioni, aveva l’abbrivio per restare in piedi.

Il filmato così fortunosamente trovato parlava di come viveva la gente  e descriveva i costumi del popolo seguendo le gesta di una graziosa bambina nata sul finire del milleottocento.

A raccontarlo, la didascalia impressa di bianco sullo schermo grigio: contrada Santa Lucia, Corleone, una bimba, annus domini millenovecentocinque.

La bimba che vieppiù nel filmato divenne una ragazzina, era proprio la primogenita di possidenti terrieri, famiglia che, senza essere grande latifondista, aveva di che sfamare la numerosa prole: ben dieci figli!

Si potevano contare, infatti, in un fotogramma messo in pausa al giusto momento, marito e moglie al centro a braccia conserte e ai lati tutti i ragazzi, quattro femmine e sei maschi, elegantemente vestiti con l’abito della domenica.

Braccia per gestire la terra e tutto il bestiame e mani veloci per menare la casa ed il tombolo far roteare.

Una cosa era evidente: in quella famiglia non v’era traccia di  Vocazione, per quanto certamente attaccati alla Fede ( il crocifisso compariva nelle stanze di quella magione );

non impegnati in politica e senza essere nobili, i figli maschi potevano scansare il talare destino e così le donne che, avendo la dote per trovare marito, non ricevettero mai in dono la chiamata di Dio.

All’ epoca, non si sa come, Dio chiamava spesso quelli che non sapevano come sbarcare il lunario o di contro, quelli che la luna la possedevano direttamente: per esser ben amministrata la sfera celeste, necessitava di avere nel paradiso i Santi e allora un prete in famiglia tornava un gran comodo, anzi, di più, era sì necessario.

Oggi, al contrario, dicono che di vocazioni è profonda la crisi, ma di questo, ovviamente, il filmato non tratta.

Le immagini inquadravano il treno in stazione visto da dietro: in testa, lontano, la locomotiva a vapore che sbuffava nervosa, come un cavallo prima di iniziare la corsa;

lungo il marciapiede, addossato a quel mezzo, un grande fermento: si caricavano merci da portare a Palermo, le prelibatezze dell’entroterra.

Ricotta con cui rifornire le pasticcerie più rinomate, farine per i panifici, legumi, caciocavallo stagionato, quello con forma di parallelepipedo, frutta e verdura.

E poi i viaggiatori, quelli che andavano in città a sbrigare pratiche o a trovare parenti oppure quelli che dovevano salpare in cerca di fortuna migliore.

 

Tra questi, la nostra protagonista ormai ragazzina e una signora più anziana con la quale aveva confidenza: probabilmente la nonna.

Si capiva che stavan partendo davvero, per andare lontano, non solo per arrivare a Palermo. Non si spiegano altrimenti i pianti e quei tentennamenti vicino al binario, come a prender la rincorsa per salire sul treno.

Abbracci, baci, pacche di conforto tra i famigliari che restarono soli davanti al binario che sarebbe stato vuoto di lì a poco.

 

Poi, d’improvviso, la locomotiva che sfiata abbondante sui lati e le bielle che iniziano a scatti a dare trazione alle ruote che stridono slittando in partenza, fino a prender aderenza, vincendo l’inerzia del ferro e del luogo, dando a quel convoglio l’abbrivio per sparire dall’entroterra verso una nuova destinazione, verso un altro di mondo, quello oltre l’Oceano.

Quel treno a scartamento ridotto era la speranza che qualcosa cambiasse: le partenze e gli arrivi di buone novelle, l’abbandono di un mondo feudale in cui l’uomo comune era merce di scambio per i pochi potenti, Il traghettamento col treno verso un’era moderna in cui concretizzare l’immensa ricchezza del luogo.

Invece, lo scartamento ridotto del mezzo rotabile era solo lo scartamento immenso tra la realtà e la finzione, tra il palcoscenico e la platea.

Chi era suo palco si fingeva magnanimo e lungimirante, con una visione sul futuro che prevedesse il miglioramento sociale, il lavoro, le case, le scuole.

In platea gli allocchi a darsi di gomito a farsi comprare e vendere per un tozzo di pane e ad assaporar il disincanto di non vedere mai cambiare le cose.

 

Il treno era il Gattopardo a vapore che illudeva nel breve tutta la gente, giusto il tempo di fare fregare le mani a quei pochi che avevan fiutato l’affare.

Giusto il tempo che il vapore sputato dalla locomotiva si diradasse a render più chiare le cose.

Ciuff ciuff!

Tramonto, foto generica da Pixabay UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

UMBERTO TANGHETTI, CHI E’?

Umberto Tanghetti, nato il primo ottobre 1977 ad Alcamo (Tp) da padre bovegnese e madre alcamese, cresce e vive a Concesio. Dopo la maturità classica al liceo Arnaldo di Brescia, prosegue gli studi a Padova, dove si laurea in chimica e tecnologia farmaceutiche.
Oggi lavora in farmacia a Brescia ed è tornato a vivere a Concesio.
“Non ho mai pubblicato per nessuno – scrive presentandosi – non ho miti letterari, ma grande stima per molti intellettuali: amo Calvino,i paesaggi di Čechov, la profondità di Dostoevskij… Ma se dovessi citarne solo uno citerei Primo Levi tirato dalla vita sui libri per testimoniare l’impossibile”.

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